Alla scuola del dolore
Il mese di novembre è il mese «del grazie». In questo periodo siamo infatti chiamati a benedire il Signore di tutti i doni della terra. Per tale motivo, il 6 novembre, prima domenica del mese, è stata dichiarata «giornata del Ringraziamento»: ricchi cesti di frutta vengono portati all’altare, in quel giorno, nelle chiese, quale segno di offerta al Signore dei «frutti della terra e del lavoro dell’uomo». Ogni volta prego con commozione, mentre elevo al cielo l’ostia, fatta di pane, e il calice del vino. Sento che in quei segni vi è tutto il Creato, con la sua fatica e il suo sudore, con la sua bellezza e la sua dignità. È il vertice della Laudato si’. Vi intravedo i trattori di mio fratello, in Val di Non, il profumo del grano delle colline dorate del Molise, oppure del bergamotto calabrese. Davvero tutto è grazie.
uest’anno, però, sento che il mio grazie si eleva oltre i cesti di frutta, per farsi benedizione per la vita restituita. Lo scorso settembre, infatti, sono stato operato per la rimozione di un ematoma al cervello, causato forse dal farmaco per fluidificare il sangue che da tempo devo assumere, da quando sono stato operato per la sostituzione della valvola mitralica (il colmo per un vescovo!). L’intervento mi ha posto tante domande inattese sul mio futuro di vita. Sulla gestione delle mie emozioni. E non tanto per il dolore fisico, quanto per il mistero connesso. Una catena di preghiera si è levata al cielo, in diocesi e oltre, alla diffusione della notizia. Tutti hanno pregato e fatto pregare. Il mio cuore era ed è commosso e grato. Mi sono sentito sostenuto, davanti alle domande esistenziali che in quel momento sgorgano nel cuore, per la forza dell’intercessione reciproca, oltre ogni mio calcolo.
La malattia ha il tremendo potere di rinchiudere gli orizzonti, li limita. La vita appare letta da un’altra prospettiva. Perdiamo amici frettolosi, ma ne guadagniamo di nuovi, lenti ma vicini, stretti, che sostengono e rialzano. Sento che la malattia è una grande scuola di vita: e il grazie ne è l’espressione più alta. Grazie a Dio per il dono della vita; agli infermieri premurosi e ai medici competenti. Un sorriso a tutti gli Ospedali Molisani che si sono adoperati, alla Fondazione Gemelli, per la diagnosi, all’ospedale Cardarelli della città che mi ha accompagnato e alla clinica Neuromed di Pozzilli, che mi ha operato con cura. Grazie ancora a tutti per la preghiera, ai miei preti per la solidarietà e alla mia famiglia vicinissima. Ho imparato a non dire più parole vuote, di facile consolazione nei confronti di chi soffre. Il malato chiede parole di vera condivisione, non parole di circostanza, che non entrano nel cuore perché dal cuore non sono uscite. L’eucaristia, che altro non è che il rendimento di grazie, mi ha sostenuto, dandomi forza e consolazione. Il rosario mi ha fatto compagnia.
La malattia ti fa tornare all’essenziale, per cui mi sembrano efficacissime le parole del profeta Aggeo. Siamo nel 520 a.C., al ritorno dall’esilio. Gerusalemme è un mucchio di rovine, ma il popolo non cura tanto la ricostruzione del Tempio, bada molto di più alla sistemazione delle proprie case. Non cura il bene comune. Non mette Dio al primo posto, ma i propri interessi. Perciò, a loro il profeta dice: «Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; […] vi siete rivestiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il suo salario, ma per metterlo in un sacchetto forato!» (1,6). Così è il nostro mondo: consuma ma non sazia; sbatte ma non gode; corre ma non guarda in faccia; tribola ma non capisce; conquista ma non gioisce. Non è mai felice, perché non ascolta l’essenziale. E nulla ha imparato dalla scuola del dolore, tanto da fare una guerra fratricida, subito dopo la pandemia.
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