Antonio, il soccorritore
Milano, mese di giugno, una bella giornata di sole dopo tanta pioggia. È domenica, e l’amica che mi ospita propone di andare a Messa nella chiesa vicina, in via Oxilia, dall’insolito nome di Santa Maria Beltrade. Mi domando a quale, dei tanti nomi con cui la Madonna è chiamata, si possa avvicinare questo strano appellativo, e non mi viene in mente proprio niente: buio pesto, come si usa dire. Dal nome, mi aspetto una chiesa antica, come ce ne sono dappertutto nelle città italiane. Ma quando ci arriviamo rimango molto stupita: è un edificio moderno che dà su una piazzetta.
La facciata elegante e austera, col portico a sei esili pilastri davanti, mi pare vagamente neoromanica, ma non riesco a farmi un’idea di quando sia stata costruita. Poi entriamo, e allora capisco che siamo negli anni Venti, e poi vedo anche la data della consacrazione, 1933. L’interno appare molto compatto e armonioso, con schiere di angeli ai due lati dell’altar maggiore, rivestiti di lunghe tuniche colorate che si rispecchiano come in una danza: evocano slanciate lampade art déco, o raffinati vasi di Praga dai colori cangianti. L’interno è molto allungato, e gli archi altissimi sono rivestiti di minute decorazioni, con infiniti tocchi di colore che si completano tra loro senza confondersi, di raffinata eleganza, incastonando il grande ciclo pittorico che si snoda lungo le pareti. Dietro l’altar maggiore, un bel dipinto con un enorme salice piangente sul quale è inchiodato Gesù – invece che sulla croce –, a simboleggiare l’Albero della Vita. Ai suoi piedi, Maria e Giovanni, eretti, si guardano affranti.
Da un foglietto di informazioni imparo che Beltrade (o Bertrade) era una contessa longobarda; che era parente (forse...) dell’imperatore Carlomagno e che diede il nome a una delle più antiche chiese di Milano, situata vicino al Duomo. L’edificio fu più volte ricostruito nei secoli; infine, sconsacrato, divenne un cinema e venne demolito nel 1929. E la nuova chiesa porta il suo nome. Ma non ci sono informazioni sulla bella statua di legno del nostro Antonio, che si trova nel primo altare a destra dell’ingresso: eppure è grande, e si staglia armoniosamente sullo sfondo, che è anch’esso di legno, sagomato al centro come un portale alto, con una grata e due croci laterali. Ai lati, la parete di legno si completa col rilevo di due porte più basse, sormontate da guizzanti balene rivolte verso l’esterno; sotto, una miriade di piccole croci e di stelle, come a raffigurare un firmamento... ma le porte sono finte, sono solo disegnate, perché l’uomo non le può varcare da solo: ed ecco Antonio il soccorritore, alto davanti a quella centrale, nel suo saio di colore più scuro che cade in pieghe diritte, armoniose.
Egli è colui che distribuisce il soccorso, il bel pane rotondo che tiene nella mano destra. Sta per darlo in mano a un bambino in giacchettina verde e piedi nudi che tende le mani, figura di noi tutti che lo imploriamo. I suoi occhi non guardano il bambino, ma contemplano l’oltre, il mondo aldilà del sensibile; eppure lui è misteriosamente presente anche col fedele, nel sorriso sul viso assorto, nel gesto benefico della mano protesa. L’altro braccio sostiene il Bambino che, col suo bel viso paffuto e i riccioli biondi, invece ci guarda, tiene gli occhi puntati su di noi. E mentre con la manina destra fa un gesto di benedizione, sulle ginocchia accostate sorregge con la sinistra un cestino ricolmo di pagnotte. I piedini nudi sembrano danzare nell’aria. Ogni gesto è non compiuto, come se tutto fosse sospeso in un’immobilità di attesa fiduciosa, nel sospiro prolungato di una preghiera. Davanti ardono molti lumini e fiorisce una rosa solitaria.
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