C'è bisogno di anima
Oggi non vediamo più miracoli economici perché ci mancano i «miracoli» umani di uomini e donne con una umanità più grande di quella insegnata e vissuta dal nuovo business
01 Settembre 2018
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La capacità di cooperare è forse la prima virtù della vita economica e civile. Il lavoro, le famiglie, le comunità, le scuole, funzionano e diventano luoghi belli in cui vivere, quando la maggior parte dei loro membri sanno cooperare, quando sanno vedere più le ragioni della cooperazione di quelle della concorrenza e della rivalità. Perché anche se oggi una scadente cultura economica ci vorrebbe convincere che le aziende e le organizzazioni funzionano tanto meglio quanto più è incoraggiata e incentivata la logica competitiva tra i lavoratori, in realtà, se entriamo nelle imprese vere, ci accorgiamo subito che queste funzionano e crescono davvero quando le persone sono capaci di dar vita ad azioni cooperative.
Poche cose al mondo ci danno più soddisfazione di azioni collettive produttive, grazie alle quali vediamo nascere idee, prodotti, servizi: andiamo a lavorare per quarant’anni per tanti motivi, ma anche e forse soprattutto perché ci piace molto dar vita ad azioni collettive generative, perché ci piace risolvere problemi dentro dinamiche di empatia e di reciprocità. Ecco perché se le nuove tecnologie ci terranno in futuro troppo dentro casa, e troppo da soli, perderemo proprio questa tipica felicità del lavorare e generare insieme ad altri, che è tanto più piena e feconda quando si lavora fianco a fianco, corpo a corpo (per le interazioni più importanti, le videoconferenze non bastano).
Le imprese invece entrano in crisi quando non hanno abbastanza lavoratori capaci di queste virtù relazionali, persone che sanno entrare in sintonia con i gruppi di lavoro, che hanno sviluppato almeno un po’ di intelligenza relazionale ed empatica. Peccato, però, che negli ultimi decenni le nostre università di economia, le business school e i famigerati MBA (Master of Business Administration: costoso titolo di studio in voga negli Usa, ndr) stanno educando lavoratori e manager a coltivare virtù opposte a quelle che servirebbero oggi alle imprese.
La prima povertà delle imprese è la carestia di dirigenti e manager capaci di entrare in relazioni vere, sincere, attente, con le persone che operano nei loro gruppi di lavoro. Qua e là sta emergendo la consapevolezza di questa povertà, e si cerca di porvi rimedio con nuove figure professionali (in particolare i cosiddetti coach), che dovrebbero curare relazioni che la cultura dei manager usciti dalle business school feriscono e intossicano quotidianamente. Succede qualcosa di analogo alle compagnie aeree che ti propongono di fare un’offerta per piantare la quantità di alberi necessaria a riparare l’inquinamento del volo che stai facendo o le imprese di azzardo che finanziano cliniche per curare le loro vittime.
Nel mondo economico c’è un bisogno crescente di una nuova classe dirigente, meno esperta di tecniche e di strumenti e più esperta in umanità; meno occupata in infinite riunioni e più presente in mezzo ai lavoratori, per vederli lavorare e quindi conoscerli (un lavoratore lo conosciamo veramente solo quando lo vediamo lavorare).
La classe dirigente dell’economia del XX secolo era stata formata dalle famiglie, dalle chiese, dalla pietà popolare, dalla fatica della vita dei campi e della disciplina della povertà. Negli anni Settanta l’Italia triplicò il numero di imprese (da 300 mila a un milione), perché una intera generazione di mezzadri, artigiani, commercianti, divenne imprenditrice (lo divenne perché lo era già, senza saperlo). Il primo capitale che portò con sé nelle nuove imprese fu quel patrimonio umano ereditato dai genitori, formatosi nel dolore delle guerre, nel sudore dei campi, nelle virtù generate e coltivate da secoli. Non sapeva l’inglese, né le tecniche di gestione delle «risorse umane», ma sapeva ascoltare i lavoratori, li guardava negli occhi al mattino quando entravano nella fabbrica e, se si accorgeva che questi erano lucidi, sapeva fermarsi a parlare, a chiedere.
Quel patrimonio civile, spirituale ed etico ha prodotto il miracolo economico e civile italiano, trasformando il nostro Paese da uno dei più poveri in una delle potenze economiche del mondo. Oggi non vediamo più miracoli economici perché ci mancano i «miracoli» umani di uomini e donne con una umanità più grande di quella insegnata e vissuta dal nuovo business. La nostra economia ha un estremo bisogno di anima, ma purtroppo non esistono mercati dove comprarla.
@bruniluis
Data di aggiornamento: 01 Settembre 2018