Cile, mezzo secolo fa…
Ogni anno quando si avvicina l’11 settembre la mia anima ha un fremito. Certo, ricordo bene dove ero quel giorno quando furono abbattute le Torri Gemelle a New York (il mondo si fermò, ero in una piazza di Lucca e fu come se tutti ci immobilizzassimo e ci spingessimo davanti ai televisori dei bar. Vedo il silenzio che calò su di noi). Ho anche altri ricordi: nella mia mente c’è sempre l’11 settembre del 1973. Cinquanta anni fa. È passato mezzo secolo.
Laggiù, all’altro capo del mondo, quel giorno venne ucciso un uomo. Da militari traditori e da chi, nel mondo, non poteva tollerare un esperimento originale e coraggioso di democrazia. E, assieme a lui, vennero uccisi a migliaia. Salvador Allende morì al suo tavolo di presidente del Cile. Aveva 65 anni e sono sempre stato stupito nel sapere che era un medico. Riuscì a lasciare un ultimo messaggio: «Ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano». «La ragione» e «la giustizia», disse, alla fine, prevarranno sulla forza. Oggi una statua di Allende sorge a fianco della Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago del Cile.
Quella notte di cinquant’anni fa ci ritrovammo nella piazza italiane. Sarebbe immaginabile oggi? Noi, ragazzi fiorentini, in piazza San Lorenzo, un luogo diverso dalle manifestazioni di quegli anni. Ci stringemmo gli uni agli altri. Sono certo che quel giorno un pezzo della mia vita cambiò. Quell’uomo, Salvador Allende, ci avrebbe accompagnato nel nostro futuro. Era un uomo «comune», indossava occhiali dalla montatura spessa, aveva un fisico rotondo. Non era un sognatore, non era un guerrigliero, né un profeta: era un uomo mite, pratico, testardo. Credeva davvero che fosse possibile una società più giusta. Conosceva i pericoli che il mondo stava attraversando. Intuiva la minaccia di un’economia priva di regole. Pochi mesi prima lo aveva detto all’assemblea delle Nazioni Unite. Qualcuno decise che quell’uomo andava fermato. Tra i tanti drammi del mondo, il colpo di stato in Cile mi provoca ancora un’emozione fortissima.
Dodici giorni dopo il golpe, morì anche il poeta Pablo Neruda. Oggi sappiamo che quasi certamente venne avvelenato. Troppo pericoloso un vecchio poeta che avrebbe potuto guidare un governo in esilio. Ai suoi funerali, accerchiati dai militari, migliaia di cileni ascoltarono l’orazione funebre di un grande scrittore cileno, Francisco Coloane. Più di venti anni fa andai a incontrarlo a Santiago. Volevo sapere di quel giorno. Volevo capire dove avevano trovato così tanto coraggio.
Leggo ora le parole di Jorge Coulon, tra i fondatori degli Inti-Illimani, celebre gruppo musicale cileno. Ero a un loro concerto, in quel 1973: sorpresi dal colpo di stato, per quindici anni non poterono rientrare nel loro Paese. Dice: «Il potere reale è ancora nelle mani di mafia e servizi segreti. In Cile c’è una ferita profonda che non si è mai rimarginata».
Oggi a Santiago c’è un presidente giovane e pragmatico, Gabriel Boric, eletto, nel 2021 da un fronte ampio delle sinistre. Il suo governo naviga tra mille difficoltà, ha perso ministri, ha dovuto rinunciare a una Costituzione scritta in mesi e mesi di partecipazione popolare. E ha malamente perso le elezioni per i consiglieri che dovranno nuovamente riscrivere il testo costituzionale. Nello stesso tempo, dopo mezzo secolo, poche settimane fa, sono stati condannati i militari che, in quel settembre, uccisero, assieme ad altri, Victor Jara, il cantautore più amato di quel nuovo Cile. Uno dei vecchi assassini non ha atteso di essere imprigionato: ha preferito il suicidio. Sì, la storia contemporanea cilena cerca ancora una pace.
A Santiago, di fronte allo stadio dove furono reclusi migliaia di donne e uomini, questo 11 settembre si canteranno le canzoni di Victor Jara. Da far ascoltare a chi ha vent’anni oggi: «Te recuerdo Amanda/la calle mojada/corriendo a la fabrica…».
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