Da prete operaio
Solo un cuore grande, innamorato di Gesù, ha spinto noi preti a entrare nelle fabbriche a fianco dei lavoratori, per condividerne fatiche e speranze, lotte e solidarietà. Nel cuore di tutti noi risuonava la grande parola della Gaudium et Spes, al numero 22, dove si legge: «Gesù ha pensato con mente d’uomo; ha deciso con volontà d’uomo; ha amato con cuore d’uomo; ha lavorato con mani d’uomo». Era infatti quel Gesù che ci spingeva ad alzarci alle 6.00 del mattino, per il primo turno di lavoro, nella sfibrante catena di montaggio. Era il fascino del Figlio di Giuseppe, falegname, a farci superare ironie pungenti di alcuni compagni di lavoro. Ma era anche la sua amabilità di Maestro a farci apprezzare le storiche battaglie di libertà del mondo operaio.
La «stagione dei preti operai» ha segnato la Chiesa francese, prima, e quella italiana, poi. La parola che ci guidava era quella di Charles De Foucauld, religioso d’Oltralpe, che in pieno deserto pregava: «Come loro, adorando Gesù in pura perdita!». Eppure fu sorprendente, in quella esperienza di condivisione, scoprire che il Vangelo, tra gli operai, era già arrivato, per vie misteriose. Non eravamo noi a portarlo. A noi spettava solo il compito delicato di togliere da quei cuori il peso di una Chiesa impositiva, che ne rendeva stanco il passo. Sentivamo nel cuore il desiderio di rilanciare alla Chiesa il grido di speranza che sgorgava dai gemiti della storia del mondo operaio. Gemiti impercettibili, che solo la prossimità della catena di montaggio ci permetteva di percepire.
Anche oggi quel cuore batte ancora, nonostante pochissimi siano i preti impegnati direttamente nel lavoro. Vorremmo risvegliare le nostre comunità cristiane, impegnate nel Sinodo, perché siano capaci di cogliere l’ardente aspettativa di questo mondo, condividendo il desiderio di liberarsi dal precariato e di superare le ristrettezze di un salario povero. È un cuore che batte, per dare dignità a tutti i lavoratori, senza subire le tragedie mortali sul lavoro. «Il grande tema è il lavoro» (FT 162), recitava il titolo del convegno dei preti operai, celebrato a Bologna il 3 giugno scorso. Eravamo una quarantina di preti operai storici, con alle spalle l’esperienza lavorativa diretta. Il cuore, però, era intatto, capace di intravedere i segni di speranza, di attesa e di sconcerto, che alimentano il mondo del lavoro alle soglie del Giubileo 2025.
È vero che è un mondo radicalmente cambiato, in cui domina il mito della velocità, l’obbligo di connessione, con i frutti amari di tanta ansia e di tanta fatica per andare in profondità nelle cose e nelle relazioni. Una mutazione antropologica, fonte di solitudine e di crescente bisogno di senso. Per questo i preti operai riprendono il grido di Simone Weil, filosofa e mistica francese, che scelse di lavorare alla catena di montaggio per comprendere la condizione operaia: Il lavoro va riconosciuto!, perché solo se è posto al centro sarà generatore di vita nuova. Tutto questo ci chiede di essere capaci di due doni, apparentemente contrapposti: fedeltà alla memoria di un passato coraggioso e discontinuità operativa, per cogliere il nuovo che germoglia.
Il convegno si è chiuso con una celebrazione eucaristica, nella cripta del Duomo di Bologna, presieduta dal cardinal Zuppi, in memoria di un prete, don Ernesto Bonaiuti, grande pensatore, perseguitato dalla gerarchia ecclesiastica e dal fascismo. Abbiamo cioè rivissuto quello che il convegno ha affidato a tutti: memoria e discontinuità; teologia e antropologia; grido del passato e angosce del presente, tenendo sempre fisso lo sguardo su Gesù lavoratore, che sa dar dignità a ogni uomo e donna nella fatica, perché il lavoro sia ovunque riconosciuto.
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