Da Sarajevo a Mariupol

Un confronto tra le due guerre nel cuore dell’Europa, a trent’anni di distanza, grazie a un testimone di eccezione: Franco Di Mare, inviato a Sarajevo nel 1992. Una riflessione sulla guerra, sulla manipolazione della verità, sul futuro dell’Europa.
03 Giugno 2022 | di

La guerra in Ucraina, scatenata dall’aggressione russa, ha riaperto la cassetta degli orrori nel cuore dell’Europa: l’assedio di Mariupol, il martellare dei bombardamenti, il massacro di Bucha, gli stupri, le fosse comuni, i saccheggi e l’uccisione di centinaia di bambini. Un déjà vu che ci riporta alla guerra in Bosnia-Erzegovina, esattamente trent’anni dopo. Un’escalation di male che rievoca i fantasmi dell’assedio di Sarajevo, 1.461 giorni di martirio, con i cecchini a fare a gara per uccidere i bambini e fiaccare il morale del nemico. Lo sa bene Franco Di Mare, giornalista, conduttore televisivo, scrittore e dirigente Rai che nel 1992 raccontava l’agonia e la resilienza di Sarajevo da inviato del TG1 e che oggi guarda alla guerra in corso anche con gli occhiali di allora.

Msa. Che cosa ha significato per lei Sarajevo?

Di Mare. Per me è stato uno shock. Fino a quel momento avevo visto molte guerre in varie parti del mondo, Libano, Africa, America centrale, ma erano comunque guerre lontane sia dal punto di vista geografico che culturale. Davanti a una guerra, ciascuno di noi mette in atto meccanismi psicologici di difesa per allontanarla da sé, convinto che si tratti di un atto tribale, primitivo, bestiale. Il problema è che le bestie non attuano crudeltà, a differenza degli umani. La guerra nell’ex Jugoslavia non solo avveniva vicino a noi, ma tra gente simile a noi, da cui andavamo persino a passare le vacanze. Erano fratelli, guardavamo gli stessi film, leggevamo gli stessi libri. Eppure constatare di persona che un conflitto così crudele avvenisse a un passo da casa, con le stesse modalità che avevo visto nelle guerre lontane, era un fatto inaudito, inspiegabile, che spiazzava. Purtroppo non eravamo diversi.

Ora, a distanza di trent’anni, un’altra guerra in Europa. Dove abbiamo sbagliato?

Non abbiamo considerato abbastanza il potere distruttivo dei nazionalismi, pur avendoli visti all’opera nelle guerre jugoslave. Il nazionalismo è il genitore del totalitarismo e la base culturale del fascismo, dove ognuno pensa per sé. E ciò è inaccettabile in un’Europa che è riuscita a trovare una coesione straordinaria all’indomani della seconda guerra mondiale, garantendoci 77 anni di pace. Ci siamo cullati sugli allori, abbiamo tardato a costruire un’Europa capace di avere una voce sola, forte dei propri valori. Un’Europa più coesa avrebbe potuto fare la differenza, prevenendo alcuni cruciali problemi.

Nelle guerre jugoslave come in quella in Ucraina la Nato ha avuto e ha un ruolo centrale. E la difesa europea?

Prima la pandemia e ora la guerra ci dimostrano che oggi più che mai abbiamo bisogno di un’Europa capace di avere un’unica direttrice su tre asset: difesa, salute ed energia. Non si può più andare in ordine sparso. In particolare, per quanto riguarda la difesa, non possiamo più delegarla alla sola Nato; è come se tutta la polizia europea fosse statunitense, e questo non è normale. Noi, al contrario, dobbiamo essere autonomi nella difesa, pur rimanendo all’interno dell’Alleanza Atlantica. È pur vero che abbiamo goduto per decenni di una pace stabile, tanto che la necessità di una forza armata europea non era percepita come una priorità.

Eppure, le guerre nell’ex Jugoslavia avrebbero dovuto suonare come un campanello d’allarme.

C’è una differenza importante tra la guerra in Ucraina e quella nell’ex Jugoslavia: in quest’ultima un’escalation nucleare era impossibile, perché non c’era un coinvolgimento diretto della Russia, anche se la Russia aiutava finanziariamente e militarmente Belgrado. All’epoca noi europei soffrivamo sapendo delle atrocità che avvenivano appena oltre confine, ma eravamo paralizzati di fronte a un conflitto regionale, a cui non eravamo preparati. Ora, però, il fatto nuovo di un potente capo di Stato che invade un altro Paese infrangendo ogni regola condivisa, scalfisce il senso di sicurezza, insinuando il dubbio che un tale destino possa toccare anche ad altri Paesi. E la difesa diventa una priorità.

L’intervento dell’Occidente nell’ex Jugoslavia è stato spesso imbarazzante.

Sarajevo gridava all’Occidente: «Aiutateci, dateci armi per difenderci, se non potete difenderci voi», esattamente come fanno oggi gli ucraini. Tuttavia, quando le Nazioni Unite entrarono a Sarajevo avevano il mandato di non prendere parte al conflitto, ma di separare le fazioni in lotta, i serbi dai croati e dai bosniaci. Solo che le fazioni non erano tutte sullo stesso piano: c’erano gli aggressori e gli aggrediti. I bosniaci sotto assedio rimanevano basiti quando chiedevano aiuto ai caschi blu e questi non reagivano. È da allora che penso che la terzietà sia sbagliata, che non si possa mantenere una neutralità tra aggressore e aggredito. Ricordo come fosse oggi la posizione di Giovanni Paolo II di fronte agli orrori dei cecchini che sparavano sui civili: il Papa parlò chiaramente di «ingerenza umanitaria», della necessità, cioè, di disarmare l’aggressore. Furono parole forti.

A proposito di religione, la guerra nell’ex Jugoslavia fu rappresentata anche come guerra tra confessioni.

Ma non era così. Si trattava di propaganda. Belgrado aveva la necessità di giustificare le sue azioni, evocando il «ritorno dei turchi» e il rischio di un’islamizzazione nel cuore dell’Europa. Una fake news clamorosa, perché a Sarajevo le tre grandi religioni monoteiste convivevano in pace da 500 anni. Nella capitale, durante la guerra la misericordia ebrea ha continuato a distribuire medicinali a tutti, mentre nella cattedrale l’arcivescovo bosniaco Vinco Pulji? accoglieva alla Messa domenicale ortodossi, ebrei e musulmani. I suoi sermoni gridavano giustizia e tutto il popolo di Sarajevo accorreva ad ascoltarlo.

Anche in questa guerra si agitano fantasmi del passato.

La prima cosa che il potere fa è giustificare la guerra per il fronte interno, trovando le motivazioni che la rendano etica e giusta. Basta ascoltare le parole di appoggio all’invasione di Putin da parte del patriarca Kirill. A Belgrado, trent’anni fa, ho visto miliziani partire per l’assedio di Sarajevo benedetti dai pope, ma ho visto anche l’Accademia delle scienze di Belgrado preparare un documento in cui si sosteneva la superiorità dei serbi rispetto ai kosovari. Su questa linea si muove anche la motivazione addotta da Putin di denazificare l’Ucraina o quella espressa dal suo ministro degli Affari esteri, Lavrov, secondo il quale «l’operazione speciale è una battaglia contro le mollezze morali dell’Occidente».

La verità è merce rara in guerra, anche per un giornalista che deve darne conto.

È molto difficile da cogliere, ciascuno dei contendenti cercherà di farti vedere ciò che è utile alla propaganda. È necessario rimanere fedeli al proprio sguardo, raccontare solo ciò che si vede con i propri occhi, facendo la tara alle fonti e controllando ogni informazione.

Com’è la guerra vista da vicino?

Io ne penso tutto il male possibile. È una delle cose più mostruose che ci siano. E ciò che è più imbarazzante è vedere la guerra mentre viene preparata. Basta poco per coglierne le avvisaglie, eppure per convenienza, per pigrizia o semplicemente perché è meglio non farsi coinvolgere, si tende a ignorare i segnali predittivi. Nella guerra in Ucraina la colpa ricade tutta sulle spalle di Putin, tuttavia riconosco che l’Occidente ha preferito girarsi dall’altra parte. Il presidente russo ce lo aveva detto, e quando ha accettato, pilotandola, la dichiarazione d’indipendenza del Donetsk e Lugansk, le due repubbliche autoproclamatesi indipendenti, in realtà quello era un primo passo verso l’aggressione. Quando ha annesso illegalmente la Crimea, quello era il secondo passo. In un’intervista al «Times» del 2019, Putin aveva dichiarato che la democrazia era sopravvalutata e non aveva più senso di esistere nel nuovo millennio. Non credere alla democrazia significa una serie di cose: non credere nella stampa libera, tanto da poter eliminare giornalisti di livello come Anna Politkovskaja; non credere a un’economia liberale, tanto da preferire un’oligarchia, non credere a una magistratura libera dal controllo dello zar, fino ad arrivare a posizioni misogine e omofobiche.

Che ruolo sta avendo papa Francesco in questa guerra?

Io credo che Francesco stia soffrendo come pochi davanti all’impossibilità di fare qualcosa per la pace. Ha provato di tutto per avviare un dialogo con Mosca: ha parlato con Kirill, ha proposto di andare di persona a incontrare Putin, nonostante abbia gravi difficoltà di salute, ha persino chiesto alla Russia, attraverso il segretario di Stato, che cosa potrebbe fare per dare un contributo al percorso di pace. Più di così, che altro si può volere? Ed è evidente che chiunque si aspetti che il Papa prenda una posizione in base alla sciocca politica degli schieramenti chiede una cosa assurda: il Papa deve fare il Papa.

Quali lezioni possiamo trarre dalle guerre in Europa?

Innanzitutto abbiamo scoperto che la prevenzione è importante e che come europei siamo più uniti di quanto non immaginavamo. Abbiamo capito che la forza dell’Unione Europea, questa comunità straordinaria fatta di gente così diversa, è stare insieme. Come disse a suo tempo Tony Blair, in un mondo globalizzato un conto è sedersi al tavolo a nome dell’Unione Europea e dei suoi 500 milioni di abitanti, un altro è parlare a nome di una singola nazione e di un piccolo popolo. L’altra lezione è non dare per scontati i nostri valori, che ci hanno garantito prosperità, pace e democrazia per 77 anni. L’Europa sta cambiando e ha di fronte nuove sfide. Non è più tempo di girarsi dall’altra parte.

 

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Data di aggiornamento: 03 Giugno 2022

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