Figli di uno stesso Padre
La scritta si nota da lontano, quando scendiamo lungo la Casilina. È posta in alto sull’edificio, ed è a lettere cubitali: «Figli di uno stesso Padre». Una frase, un annuncio che ti lascia con il fiato sospeso. È un pugno allo stomaco. Contro pregiudizi, paure e inevitabili chiusure. Le quali, spesso, sfociano in vere forme di razzismo e xenofobia.
Ci avviciniamo così all’ex campo rom Casilino 900. Con la curiosità di chi vuol conoscere un mondo diverso dal nostro, ma non meno importante. Cinque anni fa, questa grande struttura fu smantellata con uno sgombero reso obbligatorio dalle autorità capitoline. Ospitava 618 rom (273 minori in età scolare) ed era tra i più grandi d’Europa. Piccole città nelle città. Dove, per vivere, ci si inventava di tutto e dove la legalità faceva a pugni con l’illegalità. Disperazione e miseria si scontravano, quotidianamente, con la chiusura e l’indifferenza del mondo di fuori. Il mondo di fuori e quello di dentro, quello dei «sette villaggi della solidarietà», cinque centri di raccolta rom, tre campi non attrezzati e circa 200 informali.
Oggi, in quest’area in parte bonificata, rimane solo un avamposto dell’enorme spazio occupato dal vecchio campo rom: un distributore di carburante in disuso. Qui, un anno fa, sono venute a vivere alcune famiglie uscite da un altro campo, quello di via di Salone. Entriamo nel grande piazzale che accoglie l’ex struttura dell’Eni con il pulmino che monsignor Paolo Lojudice, nominato recentemente da papa Francesco vescovo ausiliare della diocesi di Roma per il settore Sud, guida personalmente. Ci chiede di chiamarlo semplicemente «don Paolo». Quel «don» che gli uomini, le donne e i bambini rom, abituati alla sua presenza, pronunciano ancora. Appena lo vedono, gli si stringono intorno e gli fanno festa. Ha alle spalle una lunga esperienza di prete di periferia, dove degrado ed emarginazione sono di casa. Fino a poco tempo fa era parroco a San Luca al Prenestino; in precedenza ha guidato la parrocchia di Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca, oltre alle esperienze a Santa Maria del Buon Consiglio, al Quadraro e San Vigilio, a Ottavo Colle.
Per sette anni è stato anche padre spirituale al Pontificio Seminario Maggiore: «Ai seminaristi – confida – ho sempre raccomandato di fare esperienza anche nei campi rom, per poter conoscere e poter servire da vicino questa realtà». Con noi c’è anche monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore dell’ufficio Migrantes della diocesi di Roma. Dopo la visita a un altro campo, siamo venuti qua per conoscere un’ulteriore pagina nella storia di questo popolo. Una pagina nuova. È l’immagine di una vita possibile. Percorribile. Dove la famiglia rom si rapporta con il mondo di fuori: crea legami con le famiglie del quartiere, segue l’istruzione dei propri figli, ripensa il proprio vivere quotidiano realizzando lavori che procurino un guadagno onesto. Piccoli passi, a volte difficili, interrotti da mille difficoltà. Eppure importanti per una vita che si desidera dignitosa. E la vita è già cambiata per queste famiglie. Lo intuiamo subito entrando in quest’area così diversa da quelle che abbiamo lasciato qualche ora prima.
Veniamo accolti dal sorriso di Nebojsa, Giorgi, Kristian, Stefania. Vivono in questa struttura assieme ai genitori: Goran e Suzana, Mirsada e Dean. Nel retro dell’ex distributore hanno ricavato degli spazi per vivere. Con un decoro che lascia a bocca aperta. Una delle famiglie è composta da nove persone: marito, moglie e sette figli. Un’altra, quella di Mirsada e Dean, ne conta ben otto. Il più piccolo, Gabriele, 7 mesi, dorme tranquillo in un passeggino, mentre la mamma allontana le mosche. I più grandi, Dalibor, 19 anni e Leonardo, 14, stanno pulendo alcune tappezzerie della nuova dimora.
Suzana ci mostra, orgogliosa, la sua casa, completata dopo mesi di duro lavoro. All’ingresso è appesa la bandiera internazionale dei rom, i «figli del vento». Il drappo è diviso in due parti: quella azzurra rappresenta il cielo e quella verde i prati. Al centro, una ruota rossa, a sedici raggi, si ricollega alla bandiera indiana. È la patria d’antica origine di questo popolo. «Ora i nostri figli hanno un tetto dove poter vivere in maniera dignitosa – confida Suzana –. Qui possono studiare, ricevere la visita dei loro compagni di scuola e degli amici, molti dei quali italiani».
Parlano romanes (o romané), una lingua di origine indiana tramandata oralmente, con una miriade di varietà linguistiche. Non c’è un alfabeto comune, una convenzione unitaria. Goran ci spiega che la scuola è una sicurezza, un guardare avanti con speranza. Un proverbio zingaro dice: «Se non vuoi vedere, a che serve una stella?». Suzana, Goran, Mirsada e Dean sono decisi a dare un concreto aiuto ai propri figli. Seguire i loro studi non è facile, ma è importante. Si lavora per guadagnare qualcosa. Tre volte la settimana le famiglie organizzano mercatini in alcuni quartieri dove vendono oggetti in rame, vestiti, soprammobili, giocattoli. E quello che più li sorprende è che gli acquirenti sono tutti italiani. «Vengono da noi senza pregiudizi. Da piccola ho sofferto molto nel dover chiedere l’elemosina – confida Suzana con gli occhi lucidi –. È una brutta storia, che non dimenticherò mai». E aggiunge: «Rimarrò sempre accanto ai miei figli perché possano studiare e trovare un lavoro onesto. Non voglio che vadano a rubare. Desidero siano felici».
«Quando siamo arrivati – spiega Goran – ci siamo trovati davanti a una montagna di rifiuti. La struttura, dopo lo sgombero del Casilino 900, era diventata rifugio per gente sbandata, prostitute, tossicodipendenti». Pian piano lui e la moglie, con l’aiuto dei figli e di volontari, hanno ricavato delle piccole stanze: un salottino, alcune camerette per dormire, un piccolo angolo cottura e un altro spazio per il pranzo e lo studio. «Qui, sotto il pavimento −, spiega con orgoglio Goran − c’era il ponte sollevatore per il cambio olio delle auto –. L’ho chiuso per ricavare una stanza e rendere così tutti gli spazi agibili». Ora alcuni tappeti arredano le stanze, il soffitto è stato abbassato, semplici mobili donati o recuperati arredano la casa. Prima di intraprendere la nuova esperienza, queste famiglie abitavano al campo di via di Salone, nel Municipio VIII. Una realtà che abbiamo visitato prima di venire qui, una vera e propria discarica a cielo aperto. Per entrare nel campo occorre attraversarla, tra topi che scorazzano tra le immondizie e metalli ferrosi di recupero abbandonati. Ci sono gomme, materassi, divani. Il campo è circondato da una rete metallica che lo rende simile a un carcere. Dentro, un insediamento popolare composto da case-container. Ospita 800 persone. Provengono da Bosnia, Serbia, Montenegro e Romania.
Qui, come in altri campi, dialogo e inclusione sono parole difficili da pronunciare. Ancor più da mettere in pratica. Ci provano attivamente sacerdoti, associazioni e volontari. Un segno concreto di una Chiesa che accoglie e desidera l’incontro, affinché nessuno si senta straniero. E l’attenzione è rivolta in particolar modo ai bambini: «Sono molti – dice il direttore dell’uffico diocesano di Migrantes –. Dobbiamo aiutarli a frequentare le scuole, sensibilizzando per primi i genitori. Se un bambino va a scuola, crescendo conclude un ciclo di studi e può avere la possibilità di trovare un lavoro. Altrimenti sarà costretto a rimanere per strada».
«Da quel campo siamo scappati – spiega Suzana –. Impossibile viverci». La donna racconta di un’intollerabile guerra tra etnie, tra famiglie. «Volevano prendere mia figlia diciottenne con la forza per farla sposare con un giovane al quale era stata destinata. Ci siamo ribellati». Di qui la fuga e il ritorno tra le rovine del vecchio campo del Casilino 900 per iniziare un nuovo percorso nella struttura che ospita oggi l’Associazione «Nuova vita». Nell’area dell’ex distributore, le giornate assumono un ritmo diverso. Si avvertono pace e serenità. Ma anche voglia di riscatto. Qui la gioia arriva improvvisa. È la gioia delle piccole cose. Nulla a che vedere con la frenesia che si vive alle nostre spalle, al di là della strada, dove passa la nuova Metropolitana C.
Dei quindici bambini presenti al campo, quattordici già studiano. Chi frequenta l’asilo, chi le scuole elementari o medie. Nebojsa, 17 anni, si è iscritta a un corso di informatica, mentre Stefania, 18 anni, vorrebbe fare la parrucchiera. I più piccoli, come Aleandro e Michael, sono presi dai loro giochi. C’è chi, invece, come Barbara e Giorgi, tenta di allestire un piccolo tavolo per fare i compiti e ci chiede un aiuto. Diego, poi, ha deciso di farsi una «doccia» sull’uscio di casa con l’acqua fredda raccolta in una bacinella. E tra una scroscio e l’altro ci dice che, da grande, vuole fare il carabiniere. Ma c’è anche chi è affezionato agli animali: «Ti piacciono le galline?», mi chiede Devid, 9 anni, prendendomi per mano e strappandomi così la promessa di portargliene una. Nel retro della struttura è stato ricavato un minuscolo fazzoletto di terra per la coltivazione di alcuni ortaggi: «Abbiamo piantato insalata, pomodori, zucchine, carote – spiega mamma Suzana –. Anche i bambini si divertono a custodire questo piccolo orto e sono curiosi di veder crescere quanto abbiamo seminato». La semina e la crescita, metafora di una nuova vita. Gli occhi di questa donna si illuminano quando parla della sua famiglia e della nuova casa. Nel loro «giardino» hanno collocato, qua e là, fiori freschi coltivati con cura. In un altro spazio del cortile è stato creato un piccolo angolo per la bella stagione: un tavolo, delle sedie, uno scivolo, un pallone, un camioncino con una gru, qualche peluche dai colori ormai stinti: «D’estate – aggiunge – mangiamo fuori e condividiamo la vita con le altre famiglie».
La parte anteriore dell’ex distributore, invece, è diventata sede dell’associazione «Nuova vita», nata sulle rovine del Casilino 900. «È uno spazio che appartiene a tutti – afferma il presidente Najo Adzovic –. Con questa bonifica abbiamo voluto restituire il parco ai cittadini del quartiere». Najo è coordinatore nazionale rom e per lungo tempo è stato loro rappresentante al Comune di Roma. La sua è una storia nella storia. Di famiglia rom, nel 1991 è costretto a fuggire dall’ex Jugoslavia per aver disobbedito, in qualità di sottotenente dell’esercito, all’ordine di uccidere dei musulmani. «Ero in servizio a Tuzla – racconta –. Avevamo l’ordine di fucilare venticinque soldati, “colpevoli” di essere musulmani. Perché – mi sono chiesto – uccidere delle persone per la loro fede?». Si è rifiutato ed è fuggito percorrendo quasi 1.500 km a piedi. «Di notte camminavo e di giorno mi nascondevo, fino a quando ho raggiunto i confini con Trieste e poi l’Italia. Se mi avessero preso sarei stato condannato a morte come disertore». Ora vive a Roma, in un campo rom, con la sua famiglia. Najo ha scritto anche un libro, Il popolo invisibile rom, per raccontare la sua storia e quella del suo popolo.
«Con questa nostra associazione – spiega – abbiamo voluto intraprendere un nuovo stile di vita. Una dimostrazione che i rom non sono soltanto “ladri e fannulloni”, ma quando vogliono si danno da fare per sé e per gli altri». Già, per gli altri. Perché nella sede dell’associazione trovano un aiuto concreto le persone fragili di qualunque etnia, senza tetto, persone piegate dalla crisi economica. È lo stesso Najo ad accompagnarci all’interno della sede: pareti candide, da poco tinteggiate, scrivanie e sedie nuove, infissi sistemati da poco. Diverse stanze, a cominciare dalla più grande dove saranno offerti servizi dei quali potrà beneficiare chiunque abita nel territorio. «Saranno presenti − ci dice − un avvocato, un commercialista, una dottoressa dell’associazione “Medicina solidale” che visiterà gratuitamente e distribuirà medicinali». Tra le iniziative in programma anche una serie di incontri sulla legalità e la sicurezza tenuti da un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, sul cammino da fare per arrivare al superamento e quindi alla chiusura dei campi. Ma ci sarà anche uno sportello del Centro di orientamento al lavoro (COL), servizi per la richiesta di permessi di soggiorno, un centro di ascolto, distribuzione di pacchi viveri e un servizio mensa per i più bisognosi, un oratorio e attività di catechismo e ricreative. Negli spazi dell’associazione e in quelli antistanti troveranno ospitalità anche mostre e un mercatino multiculturale.
«Papa Francesco ci ha dato un’indicazione precisa: ridare centralità alle periferie – afferma il vescovo Paolo –. Questo è il segno tangibile di come il suo monito sia stato accolto. Attraverso questa iniziativa di solidarietà si sta lavorando per ridare dignità nei quartieri considerati erroneamente di secondo piano solo perché ai margini geografici. I rom non sono diversi da quanti vivono ai margini di qualsiasi tipo di periferia». Qui è stata aperta, lo scorso luglio, la «Fiera Multietnica», uno spazio, come spiegano i promotori, per esprimere, condividere, dare corpo alle idee e mettere al servizio degli altri le reciproche competenze. Per conoscere il nuovo e rendere patrimonio comune quello che è patrimonio personale, crescere grazie all’interazione reciproca, grazie all’incontro che vince ogni esclusione.
Segnali incoraggianti, nonostante le difficoltà che − è inutile negarlo – esistono. Un muro invisibile, di vetro, divide il nostro mondo da quello dei rom. È un muro di diffidenza, paura. A volte di odio. I muri: l’incapacità dell’uomo di entrare in dialogo con altri esseri umani. Un’umanità sospesa. La scritta che è sopra di noi è un richiamo forte e uno schiaffo alla nostra volontà di distinguerci sempre, creando buoni e cattivi, bravi e incapaci. Senza volerne capire il perché. E senza tentare, una volta tanto, di cambiare le cose. Perché sì, siamo tutti «Figli di uno stesso Padre».
IL PLATZI ricordi del fiume
I ricordi del fiume è il documentario dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio presentato, fuori concorso e con grande successo, alla 72ª Mostra del Cinema di Venezia. Protagonisiti i rom del Platz, una delle più grandi baraccopoli d’Europa (interessata da un progetto di sgombero), in cui vivono oltre mille persone di diverse nazionalità, situata sugli argini del fiume Stura a Torino. Il documentario (140’) racconta la vita di questa baraccopoli nei suoi ultimi mesi di esistenza, tra lacerazioni, drammi, e speranze. Uno dei momenti più toccanti è il dialogo tra un adulto e un bambino sull’identità rom.
I NUMERI180 mila secondo stime i rom che vivono in Italia.0,25 % della popolazione (tra le più basse percentuali d’Europa).> 95 % sono stanziali.40 mila abitano in campi, sia regolari che irregolari.8 mila vivono nei campi a Roma.
ZOOMI rom dal Papa
Si svolgerà dal 23 al 26 ottobre il pellegrinaggio a Roma dei rom con l’attesissima udienza di papa Francesco. L’incontro avviene in occasione del 50° anniversario della storica visita di Paolo VI al campo internazionale degli zingari a Pomezia. Ecco il programma di massima:Venerdì 23. Arrivo dei pellegriniSabato 24. Mattina - Visite ai luoghi del cristianesimo Sera - Via Crucis al ColosseoDomenica 25. Mattina - Santa Messa al Santuario del Divino Amore (Roma) Pomeriggio - Proseguono visite ai luoghi del cristianesimoLunedì 26. Raduno in piazza San Pietro Ore 12,00 - Aula Paolo VI: Udienza Pontificia.