Frammenti di vita
«E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» Gv 6,39. Che io non perda nulla è espressione vigorosa e bellissima. Detta da Gesù ha una misura che abbraccia la Terra e i tempi e il pensiero si perde a immaginare. Si è trasportati oltre il confine del nostro corpo da preservare, del nostro bene da proteggere, anche dei nostri figli da accompagnare (e poi lasciare andare), del nostro Paese da sostenere, anche della nostra specie da tutelare. Tutto questo è bene perché non si può servire, sostenere e amare in astratto. L’amore ha un nome e una forma e si esprime in scelte magari imperfette, con gesti precisi qualche volta sbagliati, ma concreti. La fede ha tutto da perdere dalla rarefazione intellettualistica in cui spesso si perde. Ma quando Gesù dice che nulla va perduto ci porta dentro al miracolo in cui tutto si tiene, Cielo eTerra. Che io non perda nulla, può sembrare presuntuoso, se lo diciamo noi, può crearci ansia, essere troppo. Ma non dipende da noi. È un comandamento e questo vuol dire che è nelle mani di Dio e che proprio questo rende efficace la nostra azione.
Non perdere nulla vuol dire avere la consapevolezza ogni momento di quanto ogni cosa e persona sono in Dio. Senza superomismi. Senza tentazioni «supersantiste». A volte la realtà è un problema. Non si vede il bene. Ma Gesù non dice che tutto è perfetto. Dice che niente è così poco o così brutto da andar perduto. Una vertigine. E noi in questo siamo coinvolti. Niente di meno. Veniamo da un’orgia di illusioni sfacciate. Se non posso avere tutto allora è la fine. Solo un pensiero infantile che si percepisce onnipotente può pensare così. Eppure lo pensiamo. Ma forse, oggi, nella società ricca dell’usa e getta, che sa solo sostituire e non riparare, forse questo atteggiamento è un vero «peccato». Peccato contro questo splendido passo del Vangelo in cui Gesù ci dice tutto è prezioso, «tutta la creazione geme» nell’attesa, dirà Paolo, con linguaggio che cerca nell’analogia umana il modo di poter dire. Ma dice ancora qualcosa di più. Un rischio che corriamo in questa prospettiva del tutto o niente è di trascorrer la vita sempre «fuori». Fuori dalla politica, perché sono tutti arraffatori, approfittatori e ladri. Fuori dalla società, perché il mondo è il regno del male o almeno del sospetto. Fuori dalla responsabilità, perché tocca allo Stato, alle associazioni, al sindaco, all’amministratore. È la dimensione del ritirarsi in un luogo altro dalla vita e pensare che davvero si possa fare, mentre in realtà si è ancora sempre dentro, autocondannati a non conoscere il miracolo di cui possiamo essere parte.
È una forma di pienezza del tempo presente, quella che Gesù ci racconta. Tempo che ha dei vuoti enormi. La malattia, il male fatto, il dolore procurato o subìto, la semplice mancanza dovuta alle condizioni normali della vita. Ma l’intera storia è così, addirittura la storia della Rivelazione che è tutt’altro che una sfera perfetta a noi consegnata. Ci sono state tramandate un po’ di parole di Gesù, altre sono andate perdute, quattro Vangeli conservati come canonici, altri ritenuti apocrifi, altri persi proprio. La nostra fede affidata a frammenti che hanno galleggiato nel mare grande della storia grazie a chi li ha raccolti, custoditi, tramandati, studiati, riconosciuti, scrutati. Tutto è fragile e frammento ma nulla deve andare perduto. I frammenti possono racchiudere la perfezione, sia pure per un breve istante, diceva Bonhoeffer a proposito dell’Arte della fuga di Bach. Frammenti che sono dentro la promessa dell’Eterno.
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