Giovani sfaticati. Anzi no
Imprenditori, commentatori, politici ed economisti si lamentano: i giovani non vogliono più lavorare. Rifiutano i posti che vengono loro offerti, sia quelli fissi che quelli precari. Spesso li abbandonano. Un fenomeno imprevisto, inedito. Come è potuto avvenire? Si tentano analisi, si cercano spiegazioni. Una – sotto gli occhi di tutti – è il basso livello dei salari. L’Italia è il fanalino di coda dei Paesi europei. E, tuttavia, questo non basta a spiegare il fenomeno. Per capirne i motivi dobbiamo andare più a fondo e scavare nei cambiamenti culturali – oltre che sociali ed economici – del mondo produttivo.
Da almeno quarant’anni il lavoro come costruzione di identità e ruolo è stato svalutato e disprezzato: l’occupazione fissa, regolare, era considerata retaggio di un passato non più proponibile e chi aspirava a uno stipendio fisso in cambio di impegno e professionalità, uno sprovveduto, inadeguato al nuovo. Questo, infatti, non richiedeva impegno, coinvolgimento, ma flessibilità, precarietà, disponibilità e, naturalmente, paga minima. Di conseguenza, il lavoro era declassato a momento secondario dell’esistenza, subordinato alle necessità e alla libertà del mercato. Una cultura, quella dei padri e dei nonni, è stata scardinata. I giovani sono cresciuti all’interno di un modello ideologico e culturale che ha cambiato priorità, prospettive. Ed ecco le conseguenze: si adeguano alla precarietà, accettano un posto e un basso salario ma solo se costretti e per un tempo limitato; lo rifiutano se interferisce troppo nella loro esistenza, si appoggiano alla famiglia, prendono le distanze, non danno nulla di più del necessario. Quando la vita si contrappone al lavoro, scelgono la vita.
Gli imprenditori, i giornalisti, i commentatori, gli economisti, i politici che oggi si lamentano sono gli stessi che, in questi anni, hanno esaltato la libertà del sistema produttivo, la flessibilità e la precarietà indispensabili alla competizione e alla globalizzazione. Convinti che avrebbe creato obbedienza, subordinazione e abnegazione, facendo prosperare le imprese e tagliando le ali a ogni pretesa. Non è successo, almeno non nelle forme volute. I giovani vanno all’estero per cercare un lavoro che sia apprezzato o, almeno, giustamente remunerato o rimangono in Italia ma si preservano. Fanno i loro conti. Il mercato è mobile, cambia, il lavoro c’è, non c’è, poi c’è di nuovo. È la libertà, hanno detto per tanti anni. E loro pensano giustamente che possa esserlo anche per loro. È avvenuto così che la politica dell’usa e getta abbia provocato il disincanto. Che l’inno alla libertà abbia funzionato anche per chi ne doveva essere vittima. Ora chi ha provocato il danno è preoccupato. Ha ragione a esserlo e a cercare delle soluzioni. Rivedere i modelli finora proposti ed esaltati è complicato, ma le soluzioni non possono essere fragili escamotage. Non ci crederebbe nessuno, tanto meno i giovani.
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