Ho paura di essere debole
La fragilità è la cifra della nostra umanità, ci accompagna per tutta la vita, ricordandoci che non si può fuggire la nostra vulnerabilità. Lottiamo con le nostre imperfezioni, nascondiamo la nostra debolezza e ce ne vergogniamo, aspirando a una perfezione e a una infallibilità che non ci appartengono. Chi ha paura della propria debolezza rischia di diventare rigido, duro, inflessibile con se stesso e con gli altri. Non si vive bene accanto a una persona rigida e «perfettina». Su un muro di Firenze, che è la mia città, mi ha colpito una scritta illuminante: «Dio esiste, ma non sei tu, rilassati!». Chi ci ha insinuato nel cuore la paura della luce e della nostra ricchezza più grande, che è il coraggio di non fuggire la nostra debolezza? Quando abbiamo cominciato a pensare che la fragilità e le imperfezioni siano delle colpe?
Eppure anche la scienza che studia l’evoluzione dell’uomo sul nostro meraviglioso pianeta ci conferma che noi umani siamo il risultato di una serie di imperfezioni che hanno avuto successo. Non è magnifico? Essere fragili, imperfetti e non morirne! Anzi si vive, si evolve, si cresce grazie alle imperfezioni del nostro genoma e del nostro cervello. Si nasce nella debolezza e si muore nella debolezza. Ce lo ricorda un grande saggio, Lao Tse: «L’uomo quando nasce è tenero e debole, quando muore è duro e rigido. Tutte le cose, l’erba e gli alberi quando nascono sono teneri e fragili, quando muoiono sono aridi e secchi. Ciò che è duro e rigido appartiene alla morte. Ciò che è tenero e fragile appartiene alla vita».
Abbiamo paura di non essere abbastanza forti e scappiamo, nascondendo le nostre ferite che, se illuminate, possono invece diventare feritoie da cui passa la luce: la nostra ricchezza più grande. Non sono le ferite che devono spaventarci, ma la fuga da noi stessi e dalla vita, la scelta della penombra invece che della luce, il rifugio nel cinismo e nel disincanto invece che nella fiducia e nella speranza che la vita, con la sua saggezza, ha sempre l’ultima parola. In tanti anni che accompagno le persone in situazione di crisi, di sofferenza e di fallimento, se ho potuto, qualche volta, essere d’aiuto, è grazie alla mia debolezza accolta, non fuggita, trasfigurata. Bisogna imparare ad amare anche le nostre cicatrici e vederle come solchi in cui depositare i semi dai quali nasceranno nuovi germogli.
Mi piace molto la musica di Beethoven: è stata la colonna sonora che ha accompagnato tanti momenti di crisi della mia vita. Pare che Beethoven, negli ultimi anni della sua vita, quando ormai la sordità lo aveva rinchiuso in un silenzio senza suoni, componesse abbracciato al pianoforte, come un amante esausto, sfinito ma che non si arrende, pur di percepire le note che scorrevano dalle sue dita. Quella musica sublime che nella sua mente si espandeva con chiarezza e purezza cristallina, arrivava al suo orecchio ottusa, soffocata, a singhiozzi. Se Beethoven si fosse arreso alla sua sordità, se avesse fuggito la sua debolezza, oggi non avremmo la sua musica sublime. Se Vincent van Gogh si fosse arreso alle sue intemperanze d’umore e alla sua angoscia, oggi non potremmo godere della bellezza geniale dei suoi capolavori.
Se Milton Erickson, uno dei più grandi terapeuti del Novecento, si fosse arreso di fronte alle innumerevoli debolezze fisiche che per tutta la vita lo hanno accompagnato, non avremmo oggi alcune tra le più importanti ed efficaci tecniche di ipnosi e di psicoterapia. Come me, Milton Erickson non amava le lamentele: a 17 anni era stato in punto di morte per una grave malattia e ne era uscito con gravi menomazioni fisiche. Un’altra malattia, in età adulta, lo aveva limitato ancora di più; inoltre era un po’ sordo, daltonico, dislessico e soffriva di numerose allergie. Nonostante questo, aveva sempre pensato che fosse più saggio vivere pienamente che lamentarsi per le sfortune che ci capitano. Questo coraggio della debolezza lo aveva premiato: ebbe una famiglia numerosa e felice, con otto figli, diventò medico e apprezzato terapeuta: considerato tuttora il pioniere dell’ipnoterapia e ispiratore di molti approcci terapeutici. Per anni ho tenuto sulla mia scrivania una frase che lui ripeteva spesso e che per me è stata come una stella polare nell’oscurità: «Invece che fare una vita brutta a causa dei miei malanni, cerco di fare una vita meravigliosa nonostante i miei malanni».
Se oggi abbiamo la luce elettrica invece che le torce e le candele, lo dobbiamo alla tenacia e al coraggio di Thomas Edison, che ha scoperto i filamenti della lampadina. Di fronte a migliaia di tentativi falliti, non si scoraggiò e a chi gli chiedeva conto dei fallimenti ripeteva come un mantra: «Ho scoperto un altro modo in cui la lampadina non funziona!». Questo modo di percepire l’imperfezione e la debolezza lo dobbiamo a tante persone, pure anonime e sconosciute, che non si arrendono di fronte alle difficoltà, che non si lamentano, non si auto-compatiscono e che imparano a fare della debolezza la loro forza.
Condivido quanto scrive Eugenio Borgna, uno degli psichiatri più colti e sensibili del nostro tempo: «Che cosa sarebbe la condizione umana stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dall’instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto?». L’uomo, che è mistero a se stesso, ha i piedi d’argilla e il cuore che desidera senza sosta, che brama l’infinito. Tutto in noi dice fragilità: il nostro corpo, meraviglioso e delicato nei suoi meccanismi biologici, che facilmente possono alterarsi e rompersi; le nostre emozioni, fragili nella loro attraente instabilità; i nostri comportamenti, fragili nella loro frequente mutevolezza; vulnerabile è la ragione che si scontra continuamente con il suo limite, come fragili sono le nostre relazioni esposte alle intemperie del desiderio che non sempre si compie nel suo soddisfacimento. Ma la debolezza che ci abita non è una malattia, una patologia dell’essere di cui dovremmo liberarci, è piuttosto la condizione che caratterizza la nostra bellezza e la nostra ricchezza più vere.
Ho provato una profonda emozione quando ho scoperto che il carbone e il diamante hanno la stessa composizione chimica: la differenza la fa la luce, che rende il diamante splendido e il carbone un po’ meno attraente. La differenza, nella vita, la fa sempre la luce. Il coraggio consiste nel lasciare che questa luce ci penetri; il coraggio della debolezza è la forza di accogliere la luce e venire alla luce, è l’umile intelligenza di lasciarsi illuminare senza nascondersi nella penombra. «Le persone sono come le vetrate colorate. Scintillano e brillano quando c’è il sole. Ma quando cala l’oscurità rivelano la loro bellezza solo se c’è una luce dentro» (Elizabeth Kubler-Ross). È quella luce interiore, dono dello Spirito, che fa dire a san Paolo, un tipo determinato: «Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze (…), infatti quando sono debole è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Quando mostriamo la nostra debolezza, quando non ne abbiamo più paura, allora entriamo in intimità con l’altro. Quando abbiamo il coraggio di disarmarci, abbassando gli scudi e le nostre armature, ci apriamo davvero all’incontro che nutre e all’amore che fa fiorire la vita.
Puoi leggere l'articolo arricchito da un approfondimento di fra Massimiliano Patassini su beato Giovanni Fernandes e san Giovanni de Britto nel numero di giugno del «Messaggero di sant'Antonio»! Prova la versione digitale della rivista!