I limiti della monocultura
Uno dei problemi della globalizzazione è stata l’affermazione della cosiddetta «monocultura». Ma che cos’è la monocultura? Stando al vocabolario Treccani, viene definito così «l’effetto di processi storici e sociali che portano alla convergenza di tradizioni e ideologie diverse verso un unico modello culturale che annulli le differenze delle varie componenti originarie». Non solo. Può anche essere intesa come «cultura che si è affermata o che è stata imposta, talvolta in modo intransigente, quale modello culturale semplificato».
Questo fenomeno del monoculturalismo si sta manifestando sempre più in quella presunzione che vede il modello occidentale come quello vincente. Questa convinzione trovò il suo incipit nell’epoca coloniale. «Quando eravamo molto giovani – scriveva lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo (1922-2006) – dovevamo usare a scuola un manuale di storia francese che iniziava con: “I nostri antenati, i Galli”. All’inizio della nostra formazione c’era dunque una deformazione. Abbiamo ripetuto meccanicamente ciò che volevano instillare in noi». Premesso che Ki-Zerbo faceva riferimento a quando il Burkina Faso, allora Alto Volta, era sotto il dominio coloniale, è evidente che l’atteggiamento di presunta superiorità culturale tende a sottovalutare la ricchezza e le potenzialità di ogni alterità.
Eppure ogni cultura ha i suoi depositi di saperi. Ad esempio, per noi occidentali è di solito fuori luogo chiedere denaro a un parente o a un amico, a meno che non si tratti di una situazione molto particolare. Nelle culture africane, prestare denaro, o addirittura donarlo, viene inteso come modalità ancestrale per cementare il legame. Tale relazione deve comportare l’obbligo di condividere la propria vita con gli altri e il diritto di ricevere la propria energia dalla comunità. Così intesa, la relazione di solidarietà è dunque l’insieme delle prestazioni, materiali e immateriali, alle quali l’individuo è sottoposto a motivo della sua appartenenza a una comunità. Quando un membro della famiglia diventa benestante è suo compito provvedere alle necessità dei parenti più bisognosi. Emblematico è il caso di chi, vivendo in una città o addirittura all’estero, si fa carico delle spese scolastiche dei giovani della sua famiglia allargata.
Per fare un altro esempio: mentre in Europa il tempo è denaro, dunque non può essere sciupato, nella maggioranza delle tradizioni africane è in funzione delle relazioni e non viceversa. Nella cultura occidentale è forte l’impronta latina per cui il tempus fugit, vale a dire che il tempo fugge irreparabile. Un detto congolese, diffuso in varie parti dell’Africa subsahariana, recita invece: «Dio ha dato gli orologi agli svizzeri, il tempo agli africani». Mentre in Occidente il tempo è quantizzato, dunque potremmo anche dire soggetto a pianificazioni e scadenze per ragioni non solo culturali ma anche socio-economiche, in Africa si vive soprattutto concentrati sul presente, dichiarando il primato della persona. Quando arriva un ospite in casa, fosse anche in un momento particolare della vita, tutto deve rispondere all’esigenza dell’accoglienza e il tempo coincide con la presenzialità del forestiero.
Naturalmente, potremmo portare molti altri esempi sui tratti comuni dell’antropologia delle Afriche (usiamo il plurale, perché comunque è un continente tre volte l’Europa) che si differenziano dalla cultura occidentale. Con il risultato che vi sono stati (e continuano a esserci) equivoci e incomprensioni interculturali tra occidentali e africani. Ma per chi si dice credente, cioè per coloro che sono capaci di operare un sano discernimento, la posta in gioco è alta.
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