Il mondo astratto di Burtynsky

Ripercorre oltre 40 anni di carriera la mostra «Edward Burtynsky – Extraction/Abstraction» al Museo del ’900 di Mestre. Viaggio alla scoperta dell’impatto dell’attività umana sull’ambiente, attraverso gli scatti del fotografo canadese.
11 Dicembre 2024 | di

Se siete fan di Jackson Pollock o di Mark Rothko già lo sapete. Per guardare un quadro a volte bisogna allontanarsene. Una manciata di passi indietro e poi ancora avanti. Per «prendere le misure», riconoscere le forme, contestualizzare la composizione e, infine, rientrare nell’opera con la giusta dose di consapevolezza. Una regola, questa, che non vale solo per l’arte astratta… Deve averla avuta in mente anche Edward Burtynsky quando, oltre 40 anni fa, iniziò a documentare i siti industriali sparsi in tutto il mondo e, di conseguenza, l’impatto dell’attività umana sull’ambiente. È dedicata proprio al fotografo canadese, classe 1955, la mostra «Edward Burtynsky – Extraction/Abstraction» che il Museo del ’900 M9 di Mestre, Venezia, ospita fino al 12 gennaio. Un titolo che è già un programma, perché rimanda all’estrazione mineraria documentata dal fotografo, ma anche all’astrazione intesa come omaggio all’astrattismo pittorico, cui in qualche modo Burtynsky si è ispirato. 

Proprio come l’arte nata all’inizio del XX secolo nell’intento di rompere con la tradizione e di concentrarsi su forma e colore, anche Burtynsky – scattando da lontano ed evitando di inquadrare tratti distintivi come orizzonti, volumi topografici, architetture e figure –, decontestualizza l’immagine e trasforma scorci di natura violentati dall’uomo in panorami suggestivi. «Con il mio lavoro – scrive l’autore nel catalogo della mostra – ho intrapreso un viaggio, quello di creare un linguaggio visivo che ci metta davanti agli occhi il nostro dilemma senza indurci a distogliere lo sguardo o l’attenzione». Capita così che una miniera di rame a Clifton, Arizona (USA), dall’alto possa essere scambiata per un gioiello tempestato di pietre, o che un vigneto a Lutzburg, in Sudafrica, si trasformi sotto i nostri occhi in una improbabile maxi piscina nel bel mezzo del deserto. «Per molti versi – spiega l’autore – in un mondo che sembra allontanarsi dalla pratica spirituale tradizionale, l’arte ci mostra un’altra via da percorrere». È la via della bellezza, ma anche della consapevolezza. Perché l’una non può esistere senza l’altra. Riconoscere e osservare i danni che l’uomo ha causato finora alla Terra, dunque, rappresenta il primo passo verso il cambiamento. Un cambiamento che porta con sé ancora tantissimi punti interrogativi, ma che in ogni caso non è più prorogabile. «Veniamo dalla natura – aggiunge Burtynsky –. È importante avere una certa riverenza per ciò che è la natura, perché siamo collegati ad essa… Se distruggiamo la natura, distruggiamo noi stessi». 

Una corolla di linee curve e striature che convergono in un «bottone» centrale. Se guardando la foto di Edward Burtynsky scattata nel 2022 a Hunter Valley (Nuovo Galles del Sud, Australia) avete pensato al fiore della Bella di giorno non siete gli unici. Peccato che quegli strani petali siano, in realtà, gli scarti della miniera di carbone di Ravensworth. Un giacimento sotterraneo che, nonostante sia stato chiuso nel 2014, ha continuato a disperdere grandi quantità di metano (uno dei principali gas serra responsabili del riscaldamento globale) nell’atmosfera. Abbiamo appena varcato l’ingresso della mostra «Extraction/Abstraction» e già ci troviamo nel vivo delle tematiche tanto care a Edward Burtynsky. Curata da Marc Mayer, l’esposizione si sviluppa attraverso sei sezioni (Astrazione, Estrazione, Industria manifatturiera e infrastrutture, Agricoltura, Rifiuti, Archivio dei processi) e raccoglie oltre ottanta foto di grande formato, dieci murales ad altissima definizione e alcuni strumenti fotografici usati dal maestro, compresi i droni in grado di ampliare l’obiettivo delle sue fotocamere. Senza queste tecnologie probabilmente ora non potremmo «ammirare» gli scarti della miniera d’oro di Doornkop a Johannesburg, Sudafrica (2018): una tavolozza dalle sfumature azzurre, verdi e marroni che mette il buonumore. Almeno finché non apprendiamo che quel panorama dai colori esotici dipende dall’evaporazione e dall’ossidazione degli sterili: prodotti di scarto dell’attività mineraria spesso tossici e pericolosi per la fauna selvatica del luogo, oltre che per le falde acquifere. 

Qualche passo più avanti, dal Continente nero voliamo in Messico, sopra il delta del fiume Colorado a Baja California (2012). Dagli anni ’40 del secolo scorso, complice la costruzione di dighe idroelettriche e canali di irrigazione, queste zone un tempo fertili hanno ceduto terreno al deserto. A farne le spese interi ecosistemi che si estendevano per quasi 8000 km quadrati. Da un ambiente acquatico a un altro, sbarchiamo a Cadice, nella Spagna sud-occidentale per ammirare le saline (2013). Al di là degli splendidi crinali multicolori che disegnano il territorio sin dal 1200 a.C., in quelle paludi salmastre la produzione artigianale di sale marino ha ceduto il passo all’acquacoltura. Così se nel primo ’900 le saline offrivano lavoro a 160 produttori artigianali di sale marino, oggi solo quattro di questi sono attivi.

Il nostro viaggio prosegue negli Stati Uniti. Quell’impasto di colori caldi e terrosi che sembrano abbracciarsi altro non sono che la miniera di Morenci, a Clifton, in Arizona (2012). Fondata nel 1871 come miniera di rame sotterranea e convertita in impianto a cielo aperto nel 1937, oggi rappresenta una delle più grandi riserve di rame del Nord America e si prevede rimarrà in funzione fino al 2041. Ma non tutto è oro (o rame) quel che luccica. Perché nel 2012 i proprietari della miniera hanno pagato una multa di 6,8 milioni di dollari al governo per aver scaricato rifiuti tossici nell’ambiente. Dall’estrazione del metallo a quella delle pietre preziose, facciamo una sosta a Sakaraha, in Madagascar, dove nel 2019 Edward Burtynsky ha immortalato un insediamento per l’estrazione degli zaffiri. In pratica, un arido terreno ricoperto di buche strette e profonde anche 30 metri dove le operazioni di scavo si svolgono in modo non regolamentato.

L’avidità umana non ha limiti, sembra ricordarci il reporter, che nel 2015 vola in Germania per riprendere una miniera di lignite nella Renania settentrionale-Vestfalia. Tra i grossi solchi sul terreno scorgiamo in lontananza un escavatore a benna alto 96 metri, il più grande veicolo terrestre del mondo, nato per triturare il paesaggio ed estrarre combustibile economico ma sporco (la pratica dello strip mining). Dall’escavatore passiamo alle pompe petrolifere al lavoro nei campi di Belridge, in California USA (2003). Mentre osserviamo il panorama semidesertico colonizzato dalle macchine, leggiamo su un cartello che la California produce ogni giorno oltre 460 mila barili di petrolio, perlopiù provenienti dalla San Joaquin Valley, dove è stata scattata questa foto. Peccato che il consumo dello Stato sia di 1,8 milioni di barili al giorno e che, quindi, la California debba importare il 75% del petrolio che utilizza...  

La mostra all’M9 prosegue sul filone uomo-agricoltura. Siamo in Malesia, dove nel 2016 Burtynsky ha documentato il taglio di una piantagione di olio di palma (sempre più richiesto, perché usato in tutti i settori, dall’alimentare al cosmetico). Una linea bianca separa la vegetazione del Borneo dalle coltivazioni come una cicatrice eseguita con precisione chirurgica su una delle foreste pluviali più antiche del Pianeta: un ecosistema composto da oltre 150 mila specie di piante autoctone e quasi 400 specie di uccelli che, anno dopo anno, rischia sempre più di scomparire. «Sul nostro pianeta vivono oltre 8 miliardi di persone e tutte devono mangiare» si legge su un pannello vicino. Se poi calcoliamo che circa il 75% della popolazione mangia carne, e che questa carne deve essere a sua volta allevata e nutrita, «l’agricoltura globale deve sfamare ogni giorno più di 31 miliardi di creature». A oggi circa il 38% della superficie terrestre è terreno agricolo. Per quanto tempo sarà sufficiente a sostenerci? 

L’ultima parte della mostra si concentra sulla questione dei rifiuti. Con uno scatto del 2016 Burtynsky ci porta in Kenya, nella discarica di Dandora, a Nairobi. Un «buco nero» che – dichiarato pieno nel 2001 e dismesso nel 2012 – continua a ricevere oltre 2mila tonnellate di rifiuti al giorno e a generare reddito. Sono ancora molti, infatti, gli abitanti che ogni giorno si recano in discarica in cerca di plastiche e metalli da rivendere. Ma quel luogo è inquinato da sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio. Dalle cataste di oggetti misti a quelle di pneumatici ci separano pochi metri. È il 1999 quando Burtynsky ritrae montagne di pneumatici Oxford. Sono stati raccolti a partire dagli anni ’30 del ’900 a Westley, in California, ma dopo la visita del fotografo un incendio ha bruciato l’intero deposito, sprigionando una colonna di fumo nero tossico alta centinaia di metri. 

Siamo tutti coinvolti

Ci avviamo verso l’uscita sempre più preoccupati. Una foto gremita di filtri dell’olio densificati (Hamilton, Ontario, Canada, 1997) ci ricorda che qualsiasi oggetto prima o poi deve essere smaltito. E, con quasi un miliardo e mezzo di automobili in circolazione nel mondo, i filtri da smaltire sono tanti… Non parliamo poi della varietà di oggetti di uso comune immortalati nello scatto del 2019 in una stazione di trasferimento dei rifiuti (dove i rifiuti solidi vengono depositati, smistati e trattati, prima di essere trasportati in discarica, in impianti di termovalorizzazione o di riciclaggio) a Scarborough, Ontario, Canada. Ci avviciniamo a questa gigantografia. Riconosciamo un cartone della pizza, sacchetti, piatti, lattine. Tra una scatola e un sacco nero si staglia il volto di un bambino che sorride per qualche pubblicità. C’è poco da ridere, pensiamo. Chissà se in mezzo a quella massa di rifiuti c’è anche qualcosa di nostro.

Mentre usciamo dalla sala, una lavagna piena di scritte attira la nostra attenzione. In alto campeggia la frase: «Per migliorare l’effetto che abbiamo sul pianeta, possiamo…». «Guardare. Capire. Agire», ha scritto qualcuno. E c’è chi si è limitato a un semplice «Camminare». «Siamo tutti coinvolti» ha scritto un altro con un gessetto giallo, incorniciando la scritta con un cuore. L’importante – si legge qualche spanna più su – è «Avere coraggio» e «Credere in noi stessi». «Ciascuno di noi – precisa Edward Burtynsky– può svolgere un ruolo importante: le cose che compriamo e da chi, il lavoro che facciamo per vivere, l’efficienza e la fonte energetica delle nostre case, il cibo che mangiamo, il modo in cui viaggiamo e i candidati per cui votiamo, tutto ha un ruolo in quello che sarà l’esito dei prossimi decenni. Il tempo delle chiacchiere e dell’indecisione è finito, perché abbiamo di fronte un futuro e una realtà sempre più duri. Una realtà che virerà al meglio solo se faremo scelte difficili, e se le faremo collettivamente. La nostra dipendenza dal petrolio e l’avidità di coloro che ne traggono profitto e usano quel profitto per tenerci lontani dalle fonti energetiche alternative definiranno il futuro del pianeta e di tutta la vita sulla Terra. Ma solo se noi lo permetteremo». 

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Data di aggiornamento: 11 Dicembre 2024

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