Il paradosso dell’arte

L’ironia nell’arte moderna italiana è la protagonista di una mostra aperta fino al 7 settembre al MAMbo di Bologna.
10 Aprile 2025 | di

Cosa ci fa il formaggio a pasta filata per eccellenza su una quattro ruote d’epoca? La risposta è: la mozzarella in carrozza! Sembra un rebus, ma in realtà l’enigmistica non c’entra nulla… L’accostamento tra il latticino e il mezzo di trasporto che strizza l’occhio alla tradizione culinaria italiana, infatti, non è pubblicato su qualche rivista tra cruciverba e sudoku, ma si può vedere dal vivo a Bologna. È intitolata proprio Mozzarella in carrozza (1968-1970) l’opera di Gino De Dominicis che apre la mostra «Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo» nella Sala delle Ciminiere del MAMbo, il Museo d’Arte Moderna del capoluogo emiliano. Un tema che sembra cadere davvero a fagiolo in questi tempi bui in cui, sommersi da brutte notizie, tra guerre, crisi climatica e stravolgimenti politici, abbiamo perso la voglia di ridere e la capacità di affrontare la vita con leggerezza. Ecco, l’esposizione bolognese mira a restituircele. Almeno per qualche ora, o forse più. Almeno finché l’arte esposta nell’ex forno del pane bolognese (dal 2007 sede del MAMbo) saprà stupirci e farci riflettere. 

Curata da Lorenzo Balbi e Caterina Molteni in occasione del 50° anniversario della fondazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, la mostra riunisce oltre cento opere e più di settanta artisti per raccontare l’ironia attraverso settant’anni di arte italiana. Un percorso diviso in macro aree tematiche che, dal concetto di paradosso, si avventura alla scoperta del legame tra ironia e gioco, per poi passare all’ironia come pratica di nonsense, come arma femminista di critica al patriarcato e all’ordine sociale italiano, come forma di mobilitazione politica, nonché di critica istituzionale. «Con questa mostra – spiega Lorenzo Balbi, che oltre che co-curatore dell’esposizione è direttore del MAMbo – vogliamo esplorare l’ironia come uno dei motivi portanti dell’arte italiana. Attraverso un percorso che abbraccia generazioni e linguaggi, la mostra rivela come questo dispositivo espressivo sia stato utilizzato per scardinare convenzioni, mettere in crisi certezze e offrire nuove prospettive di lettura della realtà». «L’ironia – aggiunge la co-curatrice Caterina Molteni – si configura come un linguaggio alternativo che, piuttosto che scontrarsi frontalmente con il potere, ne smaschera i paradossi e le contraddizioni, spesso rendendoli evidenti attraverso il gioco simbolico o il ribaltamento delle norme». 

Senso al non senso

Col sorriso ancora stampato in volto per l’incontro con la Mozzarella in carrozza di De Dominicis, veniamo attirati da un piccolo schermo che riproduce in loop una donna intenta a estrarre dei piselli da un barattolo di latta e a sistemarli su un piatto. Uno a uno. Come fossero perle preziose. La signora in questione è Marisa Merz, l’autrice di questo video (La conta) apparentemente senza senso, realizzato nel 1967 con l’intento di rappresentare la volontà primordiale di misurare il tempo. Se l’opera di Merz vi pare assurda, aspettate di vedere la prossima: un olio su tela in cui si incastrano architetture d’invenzione e scale a chiocciola che non portano da nessuna parte (Valerio Nicolai, Chiocciole #2, 2025). In questo caso, l’arte si fa veicolo di idee, suggestioni e frammenti del passato. Ne sa qualcosa Guendalina Cerruti che, con Life is a Rollercoaster (2023), realizza una montagna russa in miniatura alla cui base applica foto della propria giornata. La vita, sembra volerci dire l’artista, è fatta di alti e bassi. Tutto sta a saper ammortizzare gli urti e proseguire. Guarda caso, in Traces of you, Cerruti – con l’aiuto di tessuto e rotelle giocattolo – trasforma una scarpa da ginnastica in un simbolo di resilienza, a partire dal detto «sentirsi una scarpa vecchia». E la sistema sopra un cilindro diviso in spicchi denominati in base ai sentimenti. Come l’ago di una bussola, la calzatura indica gratitudine, sensibilità, ottimismo, fiducia… 

Ricaricati di positività, passiamo all’opera successiva: un pannello di carta applicata su tela, ricoperto da minuscoli segni neri a penna. Sul bordo sinistro sfilano le lettere dell’alfabeto, mentre al centro sedici virgole punteggiano l’opera. Ma non facciamoci ingannare dall’apparente casualità della composizione, perché in Non parto, non resto (1984) Alighiero Boetti ha nascosto il titolo sottoforma di messaggio cifrato. A ispirarlo, il mito di Enea, costretto a lasciare l’amata Didone per compiere il proprio destino e dare origine alla stirpe romana. Dalla leggenda, pochi metri più avanti, passiamo alla quotidianità reinterpretata da Bruno Munari nelle serie di Libri illeggibili, Forchette parlanti, Macchine inutili e Sculture da viaggio. Per il grande designer (1907-1998) il gioco è alla base della creazione artistica, ancor più se coinvolge l’utilità (o meno) di un oggetto. Ecco allora che, da oggetto di lettura, un libro diventa espressione estetica del colore e del segno, o che una forchetta, anziché infilzare il cibo, è chiamata a esprimere una domanda o un concetto (Come va, Autostop, Très chic, 1991-1998).

Chi ha detto che un oggetto nato per uno scopo non possa assolverne un altro? Quanto è sottile il confine tra utile e inutile? Se lo deve essere chiesto anche Carla Accardi quando, nel 2001, ha realizzato l’Armadio inutile, un parallelepipedo trasparente sul cui fondo l’artista ha applicato un filtro verde. Per quanto traforato sul lato anteriore, l’oggetto in questione, essendo chiuso sui quattro lati, non può contenere nulla. Ma come abbiamo già visto, in arte (e non solo) molto spesso «limite» fa rima con «possibilità».

Mentre procediamo verso il fondo della Sala delle Ciminiere, una strana figura bianca dalla forma allungata, con tanto di cresta ondulata sulla schiena, ci scorta sulla destra. Esposto per la prima volta al Premio Modigliani del 1967, Il grande rettile di Pino Pascali (1966) è in realtà una «finta scultura» realizzata con una grande tela dipinta appoggiata su una struttura in legno. Le sue forme essenziali, evocando i disegni dell’infanzia, ci esortano a non perdere la semplicità e l’innocenza dello sguardo fanciullesco. Un invito condiviso anche da Varazze (1964), opera di Aldo Mondino che fa parte della serie delle Quadrettature prodotta dal pittore torinese nel momento del suo distacco dal Surrealismo. Realizzato su un supporto in masonite, il quadro diventa, agli occhi dell’osservatore, un album da disegno gigante diviso in due parti. Se nella porzione inferiore Mondino, seguendo la griglia quadrettata, crea una composizione didascalica (un bambino che gioca sulla spiaggia), nella fascia superiore libera il pennello e abbozza un grande sole rosso, giallo e arancio. Da questo vortice di energia stilizzato cola qualche goccia di colore fino a «macchiare» il mare sottostante. Una «incursione» eloquente, segno che senza l’istinto non ci può essere neanche la tecnica. 

Dal bambino quadrettato e statico di Mondino passiamo ai Bambini mostruosi dipinti da Enrico Baj nel 1955. Occhi rossi e volti come scarabocchi, le creature innocenti per eccellenza diventano, in questo olio e collage su tela, elementi ludici e grotteschi tramite cui l’artista affronta la tragicità del contemporaneo. Una tragicità fatta anche di situazioni comiche, come quelle dipinte da Antonio Donghi in L’ammaestratrice di cani (1946) e Il giocoliere (1936). In entrambi gli oli su tela, infatti, i professionisti, goffi e ingessati nei loro abiti di scena, sono alle prese con mansioni effimere tanto quanto il mondo-palcoscenico che li osserva oltre la tela. In balìa di quella platea è, per certi versi, anche il Manichino pittore (1925) di Giorgio De Chirico, un automa di legno seduto di spalle davanti a un gruppo di tele. Chi ha dipinto chi? Da dove viene e dove va l’impulso creativo? Che futuro per la figura dell’artista?

In cerca di risposte, finiamo davanti alle fotografie vintage in bianco e nero che compongono L’invenzione del femminile. RUOLI (1974) di Marcella Campagnano, una serie di scatti che interpretano diversi ruoli assegnati alla donna nel corso della storia. Madre, sposa, casalinga, prostituta: lo schema si ripete in un rituale liberatorio di «mascheramento reciproco». Obiettivo: demolire i luoghi comuni imposti dalla società patriarcale. La riappropriazione di significati e spazi da parte del femminile è anche l’intento di Greta Schödl che, con il suo Bidone (1978-2024) ricoperto dalla scritta «Bidone» e impreziosito dalla foglia d’oro, trova nell’utilizzo rituale della parola uno spazio di interazione tra soggetto e oggetto, oltre che un modo per esternare sensazioni e memorie.

Percorriamo l’ultima parte della mostra al MAMbo tra disegni, collage (su tutti, quelli di Pablo Echaurren che, dagli anni Settanta, nel culmine delle proteste studentesche, utilizza i fumetti di indiani e cowboy per parlare di incontro-scontro interculturale) e fotografie (vedere per credere il Corteo con il drago di Enrico Scuro, immortalato il 20 febbraio 1977, quando gli studenti bolognesi trovarono un modo alquanto singolare per aggirare il divieto di manifestare…). Coinvolta in proteste e mobilitazioni politiche, l’arte rischia, però, di perdere centralità. «L’arte è finita, smettiamo tutti insieme. Guttuso anche» scrive sui manifesti affissi per le strade nel 1974 Giuseppe Chiari, musicista, poeta e artista visivo, nonché figura centrale del movimento Fluxus. Se per l’artista fiorentino, deceduto nel 2007, tutto è arte e, dunque, l’arte non esiste, viene da chiedersi cosa avrebbe pensato di questa mostra.

Ma al di là delle definizioni, fare ironia significa anche saper esagerare e sorprendere. Proprio come Piero Golia, che nel 2000, durante la fiera torinese Artissima, porta con sé una grande palma e ci si arrampica rifiutandosi di scendere finché qualcuno non avesse acquistato una sua opera. Il ricordo di quell’«impresa» rivive ora al MAMbo in una foto incorniciata (Sulla cresta dell’onda) che ritrae l’artista aggrappato alla pianta. Un gesto disperato o una performance studiata a tavolino per generare curiosità e interesse? Morale della favola: se vuoi entrare nel sistema arte, impara prima a giocare secondo le sue regole. Con tutti i pro, ma anche i contro, del caso. Lo sa bene lo skydancer di Davide Sgambaro (Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno, 2025), un fantoccio verde gonfiabile che, posizionato all’uscita della mostra, si dimena in uno spazio espositivo troppo piccolo. E, così facendo, sbatte contro le pareti e si danneggia progressivamente in una forsennata danza autolesionista. Colmo dei colmi, il nostro «condannato a morte», simbolo di un presente sempre più precario, sorride pure! L’arte si crea, l’arte si distrugge, ma l’ironia resta.

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 10 Aprile 2025
Lascia un commento che verrà pubblicato