Il rito della memoria
Novembre, «È l’estate, fredda, dei morti» come scriveva Giovanni Pascoli. È importante ripensare ai morti, ai nostri e ai tanti, in un momento così delicato dove la vita è così strettamente intrecciata alla morte, ormai compagna di viaggio quotidiana: dopo la pandemia, la guerra. Questa consapevolezza non va rimossa, ma nemmeno deve generare angoscia. Per entrambi gli aspetti ci aiutano i riti, che danno concretezza alla memoria, incarnandola nel quotidiano, rompendo la routine e generando momenti di particolare intensità, che consentono collettivamente di dar senso a ciò che accade.
ito vuol dire «ordine»: sia perché collega ordini diversi di realtà (il cielo e la terra), sia perché aiuta a dare ordine alla vita sociale, contrastando la frammentazione e favorendo la partecipazione. I riti coinvolgono il corpo e la comunità. Grazie a essi, come scrive il filosofo Byung-Chul Han, «gli ordini e i valori in vigore in una comunità vengono fisicamente esperiti e consolidati». La memoria, i riferimenti comuni si fanno esperienza e così rafforzano il legame e l’appartenenza comune.
In un mondo sempre più frammentato e individualizzato, il rito è uno dei pochi contesti che consentono di elaborare la perdita, di «lasciar andare» senza soccombere allo strazio, al senso di vuoto, all’ingiustizia di certe morti. Pensiamo ai funerali del piccolo Mattia, vittima dell’alluvione nelle Marche, e a come il rito delle esequie ha aiutato a sintonizzare e consolidare i sentimenti collettivi. In una società in cui i sentimenti collettivi si formano sempre più «contro» qualcosa o qualcuno, il rito ci aiuta a sentirci una comunità di destino.
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