Illuminare la notte

Ogni essere umano ha in sé, come il fuoco, il potenziale per curare e per ferire. La solidarietà, la fraternità, la mitezza disinnescano l’aggressione e suscitano la compassione che guarisce.

Laudato si', mi' Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robusto et forte.

Illuminare la notte

Di suor Marzia Ceschia

Gli attributi che Francesco assegna a frate Focu suggeriscono la dirompente vitalità che il santo percepisce in questa creatura: attraente per la sua bellezza, gioioso per la sua «giocondità», forte e robusto. Una creatura dinamica e solida a un tempo, che suscita nell’assisiate meraviglia e fiducia: frate Focu, infatti, squarcia con la sua luce la notte. Nella Compilazione di Assisi (FF 1615), nel racconto del contesto compositivo del Cantico, intuiamo la tonalità spirituale della lode di Francesco: «[...] E a sera, quando scende la notte, ogni uomo dovrebbe lodare Dio per quell’altra creatura: fratello fuoco, per mezzo del quale i nostri occhi sono illuminati durante la notte». Infatti, prosegue il santo, coinvolgendo in un unico sguardo di gratitudine il sole e il fuoco stesso, «noi siamo tutti come dei ciechi e il Signore ci illumina gli occhi per mezzo di queste due creature». Esse sono significazione di una chiarezza donata nell’oscurità che l’essere umano non è capace di dipanare da solo e rimandano alla presenza di Dio che crea e dona i mezzi per non soccombere alle tenebre. Il fuoco quasi fa le veci del sole nella notte, come una sentinella mentre l’astro più luminoso riposa. 

Con il fuoco Francesco dialoga, come ci narrano le fonti, prima di subire il cauterio, al tempo della sua malattia agli occhi. Tommaso da Celano, nella Vita seconda (FF 752), riporta le parole che il santo rivolge alla creatura. Si tratta di un episodio che merita di essere riascoltato e meditato, per la profondità di atteggiamenti che suggerisce anche a noi: […] trovandosi costretto a permettere che lo si curasse, viene chiamato un chirurgo che giunge portando con sé il ferro per cauterizzare. Ordina che sia messo nel fuoco finché sia tutto arroventato. Il padre, per confortare il corpo già scosso dal terrore, così parla al fuoco: «Frate mio fuoco, di bellezza invidiabile fra tutte le creature, l’Altissimo ti ha creato vigoroso, bello e utile. Sii propizio a me in quest’ora, sii cortese!, perché da gran tempo ti ho amato nel Signore. Prego il Signore grande che ti ha creato di temperare ora il tuo calore in modo che io possa sopportare, se mi bruci con dolcezza».

Nel racconto emerge il tratto umano di Francesco: il corpo ha paura ed è un sentire accolto, non negato né trasformato in un illusorio eroismo. Confortare sembra l’attitudine del santo: a sua «consolazione» (cf. Compilazione di Assisi: FF 1615) intona il Cantico, a conforto di un corpo debole e impaurito entra in dialogo proprio con ciò che suscita il terrore, con ciò che potrebbe ferire. È un’attitudine che aprirebbe a più ampie riflessioni: dialogare e non contrapporsi per incontrarsi, sanando una conflittualità latente, è lo stile relazionale che Francesco assume e suggerisce in diverse situazioni. Una, emblematica, è quella in cui si entri in contatto con i cosiddetti «infedeli»: tale circostanza è menzionata nel capitolo XVI della Regola non bollata, in cui il santo chiede di non fare «liti né dispute», di essere «soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» per «comportarsi spiritualmente» (FF 43).

L’assisiate riconosce al fuoco le sue qualità, ne proclama l’origine, l’Altissimo, che non può non compenetrare le sue creature del bene che Lui è. Francesco chiede cortesia, gentilezza: essa è risposta alla cortesia usata da lui stesso. Tommaso da Celano nota del resto che «tutte le creature, da parte loro, si sforzano di contraccambiare l’amore del santo e di ripagarlo con la loro gratitudine. Sorridono quando le accarezza, danno segni di consenso quando le interroga, obbediscono quando comanda» (FF 751). Prima che il ferro rovente venga affondato nella sua carne, il santo traccia il segno della croce sul fuoco e della creatura sperimenta soltanto il bene. È significativa l’osservazione del biografo a conclusione del racconto: «A mio giudizio, il santo era ritornato all’innocenza primitiva, e quando lo voleva diventavano con lui miti anche gli elementi crudeli» (FF 752). 

Almeno due indicazioni possiamo trarre da questa scena così intensa. Anzitutto siamo sollecitati a riflettere seriamente su come una logica di sfruttamento, l’attuazione di un gioco di forze che mira a consumare la creatura per trarne vantaggio, non si concretizza in benefici reali, sostenibili, capaci di durata. Il rispetto che Francesco nutre nei confronti di frate Focu glielo rende complice, alleato. L’esito opposto sarebbe la distanza e la lotta. Il corpo a corpo con la creatura perché «vinca il più forte». In questo senso il santo è «innocente», cioè autenticamente uomo, secondo il progetto del Creatore che ha collocato l’essere umano in un giardino che lo precede e che gli è stato affidato non per spadroneggiare su di esso, ma per coltivarlo e custodirlo ai fini della vita (cf. Gen 2,15).

Secondariamente possiamo riconoscere come questa medesima logica abbia ricadute di grande importanza nei rapporti tra le persone, nella prospettiva secondo la quale si considera ogni alterità, ogni differenza. Non si tratta di inglobare l’uno nell’altro, di omologare, tanto meno di annientare, ma di accogliere con la curiosità propria dello stupore la novità che ciascuno porta per lasciarsene arricchire. Ogni essere umano ha in sé, come il fuoco, il potenziale per curare e per ferire. La solidarietà, la coscienza dell’Origine, la mitezza – virtù oggi così dimenticata e sottovalutata! – disinnescano l’aggressione e suscitano la compassione che guarisce.

Fiamme giocose

Di Davide Rondoni

Gli amanti del fuoco, come Francesco, non mancano. Sono santi, poeti, mezzi matti, e le loro fiaccole ci passano anche sulle palpebre chiuse, lasciandovi un segno d’oro. E poi, ci entrano dentro...

Il fuoco è splendente agli occhi del quasi cieco Francesco. Chissà come se lo ricordava, mentre lui diventava sempre più corpo freddo, tenebra e rigore... Doveva essere uno dei segni più belli da ricordare. E così, volle confermare, nel testo che lascia come tramando perpetuo ai suoi fratelli, che «ello è bello et iocundo et robustoso et forte». Forse perché pareva – a quell’animo giullare e poeta – che quasi danzasse e, come raccontano le cronache, non voleva mai spegnere quel gioco danzante anche se si appiccava ai suoi abiti o a cose nella cella. E non voleva che lo si soffocasse, ma che si lasciasse estinguere . 

Che attrazione formidabile, bambinesca e potente questa del fuoco che trova un posto privilegiato nella vita di Francesco! Uno dei segni più evidenti del suo essere lieto, e disposto a riconoscere all’Altissimu una fantasia prodigiosa e sfuggente ai nostri soli pensieri. Del resto, Francesco sapeva bene che il fuoco era anche forza distruttiva e mortale. Ai suoi tempi forse più che ai nostri. Noi in un certo senso abbiamo imparato a domarlo, a servircene, a usarlo per i nostri scopi, persino per quelli peggiori, guerreschi o criminali. Ma ai tempi del santo amante del fuoco, il fulmine incendiario, le fiamme non sopite sotto la cenere dei camini, le arsure di stoppie o rami che bruciavano tutto, beni e animali e persone, non sembravano ai più una cosa iocunda. Senza contare gli incendi di guerra e i dardi infuocati, armi meno sofisticate delle nostre ma non per questo meno crudeli. 

E allora, da dove arriva questo iocundo? Come detto, le fonti ci informano di gesti e situazioni di predilezione per il frate Focu. E nella frase che gli dedica Francesco attraverso la successione di «et» sembra ridarci il suono di un crepitìo tra le sinuosità visionarie della fiamma. Ma fin dall’inizio è chiaro che il fuoco è innanzitutto ciò attraverso il quale tu, Signore, enallumini la nocte. La notte dei viandanti traversata dalle torce, la notte delle sentinelle, la notte delle madri in veglia sui figli malati. la notte dei ladri, la notte degli amanti, la notte dei poeti. La notte di chi prega. Enallumini è un francesismo, pare, mescolato a quell’italiano sorgivo che fa diventar matti filologi, ma parla al cuore tormentato delle lingue attuali.

Gli «alluminatori», come li chiama pure Dante due secoli dopo, o meglio detti «miniatori», erano artisti sopraffini, importanti nella vita dell’arte medievale quanto gli artisti per noi arrivati come celebri. Non a caso Dante pone accanto alla lode per Giotto, ormai astro nascente rispetto a Cimabue, il nome di un miniatore ora per noi avvilito nell’ombra del mistero biografico, Franco il Bolognese, probabilmente legato alla fiorente attività editoriale che si svolgeva nello Studio della città ai tempi in cui Dante andava a Bologna, e non per frequentare l’Università, ma per frequentare poeti e qualche bella ragazza. Ecco, quegli artisti raffinati lavoravano con l’oro, creavano capoversi meravigliosi e illustrazioni che davano luce al testo, alla pagina, al significato. Si tratta spesso di minuziosissime opere, segno speciale di abilità e visionarietà. 

E dunque il fuoco come un grande «illuminatore» fa fiorire di figure dorate la notte, e con la sua danza e la sua forza «robustosa» porta l’oro e i suoi riflessi dove ci sarebbe solo tenebra e sguardi smarriti. E questo vale non solo per il fuoco esteriore, ma anche, e di più, per il fuoco interiore. Che en allumina la notte in cui il nostro animo cade. Ma gli amanti del fuoco, come Francesco, non mancano. Santi, poeti, mezzi matti, e le loro fiaccole ci passano anche sulle palpebre chiuse, con un segno d’oro. E poi, ci entrano dentro...

A san Francesco

Di Asia Vaudo

Le Tue braccia tese sono i rami forti dell’albero
che per primo s’aprì per contenere il cielo. 
Francesco, sono morta – nella carne 
abito coi miei soli occhi
la vita, non sono che fatta 
delle stelle brune e tremanti in cielo
Francesco, sono morta – nello spirito
io che so che il mondo non esiste, esiste solo
l’amore 
Francesco, forse non sono morta
nell’amore – ancora 
forse sento di quella forza
l’ardore – forse sei Tu che mi parli 
nel mare mia cattedrale 
nel fragore lieve – bianco 
dell’uccello sul manto 
delle onde
nell’occhio nero vasto 
del cucciolo animale
nella piuma del passero nell’orso nel maiale
Apro le braccia al mondo – sono rami. 
Ora contengo anch’io 
tutta la volta di questo cielo rotondo. 

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 17 Luglio 2024
Lascia un commento che verrà pubblicato