Immigrazione, specchio del Paese ospitante

Uno studio di Mediobanca rivela come l’immigrazione registri limiti e opportunità del Paese che accoglie. Ecco perché affrontare le migrazioni dal giusto punto di vista è una risorsa.
29 Gennaio 2025 | di

Immigrazione argomento rovente di questi tempi. C’è chi la teme per le sue ricadute economiche e sociali e chi l’invoca per coprire il fabbisogno di lavoratori in alcuni settori e il calo demografico. Pochi si fermano a capire, oltre gli steccati ideologici e le paure, se può essere davvero una risorsa. La domanda è ancora più opportuna, incalzati dagli eventi di questi ultimi giorni: l’arrivo record dei migranti in Italia, con un incremento del 138 per cento rispetto all’anno scorso, le navi militari italiane che sbarcano i primi irregolari in Albania, le foto delle deportazioni americane postate dal neo-presidente Trump e al contempo la scomparsa degli immigrati dalle aziende agricole e di costruzione della California, con i raccolti che rischiano di rimanere sui campi e la possibile impennata dei prezzi. Dimostrazione inequivocabile che le soluzioni non sono mai semplici e tagliare la questione con l’accetta rischia di creare più problemi che rimedi.

A dare un contributo inedito all’argomento, l’area studi di Mediobanca, che poco più di un mese fa in occasione della prima CSR Conference dell’istituto di credito, ha presentato un report dal titolo eloquente: Gli impatti economici delle migrazioni: problema o risorsa? A firma del direttore dell’area studi Gabriele Barbaresco.

La risposta alla domanda non solo non è scontata ma getta luce su alcune debolezze del nostro «sistema Paese», in quanto l’immigrazione, spiega il report, è lo specchio di una nazione e diventa un bene o un male a seconda delle politiche migratorie e delle condizioni strutturali dell’intera popolazione e del mercato del lavoro di un dato Paese.

Ma andiamo per ordine. Dal 2000 – esplicita il rapporto – da quando cioè le Nazioni Unite hanno introdotto il concetto di «replacement migration», la migrazione è stata sempre più letta come strumento per compensare il trend demografico negativo. «Ma questa logica è limitante – spiegano da Mediobanca – in quanto dal punto di vista economico fa differenza se un migrante arriva per motivi economici o per ricongiungimento familiare, se è un rifugiato o un bambino». La migrazione, infatti, è un fenomeno variegato, ma il modo in cui si distribuisce nei vari Paesi di accoglienza, svela qualcosa su quei Paesi. Per esempio nei Paesi con una gestione dell’accoglienza più tradizionale, tra cui Italia, Francia e Germania: «I permessi di soggiorno per motivi lavorativi sono stati il 15 per cento del totale contro il 40 per cento di quelli legati ai ricongiungimenti». Al contrario nei Paesi europei con politiche d’integrazione più sviluppate, i permessi lavorativi arrivano al 57 per cento del totale, mentre quelli familiari solo al 14 per cento.

A differenza di quanto normalmente si crede, avere più lavoratori immigrati è un vantaggio, non derubricabile con la classica frase «ci rubano il lavoro». Il Fondo monetario internazionale ha realizzato delle simulazioni su base mondiale, stimando che i migranti economici determinano un incremento medio del Pil dell’1% a cinque anni dall’ingresso, mentre per altri tipi di immigrazione l’impatto è trascurabile. In questi ultimi casi sono le politiche d’integrazione sociale, linguistica e lavorativa che potrebbero fare la differenza, innalzando per esempio l’impatto stimato dello 0,15 per cento sul Pil per un rifugiato a un impatto che va dallo 0,6 all’1,3 per cento a seconda delle politiche intraprese.

Cambiare il punto di vista

Tra l’altro, stando ai dati, di questi lavoratori ne abbiamo bisogno. Banca d’Italia stima che nel 2040 potrebbero esserci 5,4 milioni di persone in età lavorativa in meno (15-64 anni), con una forza lavoro che scende del 9 per cento, di pari passo con il Pil, anch’esso previsto al 9 per cento.

Il vero problema è che non si possono trattare questi temi in modo sereno e razionale, perché sono altamente divisivi, mentre occorrerebbero obiettività e lungimiranza. Ed è questo atteggiamento di fondo a rendere difficili le soluzioni: «Le politiche d’integrazione pagano, ma prima vanno pagate. Esse comportano l’impiego di ingenti risorse finanziarie e il bilancio tra costi sostenuti e benefici prodotti diviene positivo solo dopo almeno un decennio. Esse, di conseguenza presuppongono un adeguato spazio nei bilanci pubblici e un ceto politico, e relativo elettorato, pazienti» recita il rapporto. La logica non dovrebbe essere quella della spesa ma dell’investimento.

L’altro aspetto rivelatore del rapporto è che i migranti riflettono le caratteristiche dei Paesi d’immigrazione, e quindi sono una spia utile anche per cercare soluzioni di sistema, quelle che, per esempio, potrebbero portare anche i nostri giovani a investire saperi e talenti nel loro Paese o potrebbero attrarre talenti dall’estero. E veniamo infatti all’esempio italiano. Gli immigrati, esattamente come gli italiani, fanno sempre meno figli; non solo, i più bravi e qualificati, esattamente come i nostri ragazzi, emigrano in Paesi la cui popolazione è più istruita e la possibilità di trovare impieghi più in linea con la propria preparazione è più ampia. Al contrario «L’Italia ha la quota più bassa tra tutti i Paesi Ue (13%) di immigrati con istruzione universitaria ed ha la seconda quota più bassa di nativi con istruzione terziaria (22%)». Solo il 14 per cento dei migranti in Italia copre ruoli ad alta qualificazione, rispetto al 33 per cento della media europea e al 51 per cento del Paese più all’avanguardia in questo campo, la Svezia. Guarda caso l’Italia meno attrattiva per i migranti è meno attrattiva per gli italiani stessi.

Le soluzioni ci sono, dunque, non sono facili, né immediate, ma per plasmare un futuro migliore è necessario guardare in faccia la realtà.

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Data di aggiornamento: 29 Gennaio 2025
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