«Imparate a fare il bene»
«Imparate a fare il bene» dice il profeta Isaia (1,17). È la parola che il Signore rivolge ai capi di Sodoma e Gomorra. È un capitolo che va letto e riletto perché sembra che parli di noi oggi. Prima Isaia chiarisce che la Parola del Signore è rivolta proprio ai capi che, in quanto capi, hanno una responsabilità grande verso il popolo, che deriva esattamente dall’incarico che hanno. Poi, con la voce del Signore, elenca una serie di azioni devote, diremmo oggi, sacre, che lui, il Signore, detesta: i sacrifici degli animali, e ci sembra di poterlo capire, ma poi dice anche che «l’incenso è un abominio». E anche che «noviluni, sabati, assemblee sacre» sono intollerabili: «Non posso sopportare delitto e solennità» (13).
Ecco. Delitto e cerimonie, delitto e dichiarazioni solenni di fede. Ma qual è il delitto? «Le vostre mani grondano sangue» (15), dice il Signore. Colpevoli di uccidere, oppure di lasciar morire. C’è una parola che ci aiuta, una parola moderna e un po’ difficile: scotomizzare. Viene dal greco skòtoma, che vuol dire oscuramento, ottenebramento. Significa mettere in ombra una cosa che sappiamo bene, vivere come se non sapessimo. Come se non sapessimo che chi muore in mare non lo fa perché ha attentato alla nostra quiete, ma perché era disperato e solo per questo è partito, pur consapevole di poter morire. Come se non sapessimo che respingere (riportare alla spiaggia di partenza o al Paese d’origine) vuol dire condannare alla tortura o alla morte. Come se non sapessimo qualcosa che è oggettivo, documentato, e cioè che il nostro problema con i migranti non è il numero (abbiamo circa l’8% di popolazione immigrata, la Germania ne ha il 23% secondo l’INSEE, Istituto di ricerca transalpino, quasi un quarto della popolazione) ma il fatto che se non vengono accolti, distribuiti sul territorio, inseriti in un processo di acquisizione della lingua e di competenze lavorative adeguate, sono agganciati dalla malavita e addio.
Sappiamo tutto, assolutamente tutto. Ogni numero di questa rivista, in cui scrivo e che chi sta leggendo conosce, pubblica da sempre dati e storie di persone che si muovono per cercare una terra di pace. Perché, anche se è verissimo che siamo nel mondo della complessità che richiede informazione e competenza, tutto è alla fine anche molto semplice. Isaia lo dice: «Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (17). Si tratta di stare dalla parte dei poveri.
Naturalmente c’è chi dirà: d’accordo, ma è Antico Testamento, dove si dice di tutto, si parla di sterminio dei nemici, si esalta la battaglia, si separa il popolo eletto dal resto del mondo. Appunto, in un contesto in cui essere dalla parte del povero poteva sembrare debolezza, il Signore dice che no, che quella è la sua volontà. E il Vangelo ha vertiginose conferme di questa naturale attitudine da credenti che siamo chiamati a coltivare: «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato». (Mt 25,35) Semplice e difficile, difficile e semplice. È un modo di essere nel mondo che non contempla il nostro usuale «sì... ma». Sì, d’accordo, ma oggi è impossibile (ai tempi di Gesù era più facile?), sì ma non sappiamo, non possiamo. L’esortazione di Isaia era rivolta ai capi, ai responsabili del popolo. Chi di noi non è capo ha qui un ammonimento severo. Cercare, votare, eleggere capi che sappiano essere senza ipocrisia, consapevoli di essere depositari di una fiducia accordata, pronti a risponderne, capaci di imparare a fare il bene.
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