Italia in declino? Oriundi pronti a tornare
In occasione della presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo 2024, curato da Delfina Licata per la Fondazione Migrantes, organismo della Conferenza episcopale italiana, monsignor Giancarlo Perego, presidente della Migrantes, ha ribadito che «non è possibile che la politica (italiana, ndr) non riconosca i cambiamenti che stanno avvenendo nella polis, nella città. Deve interpretarli e governarli con strumenti idonei e non pregiudiziali. Dal 1992 a oggi l’Italia è cambiata». In effetti, dal 2006 la presenza degli italiani che sono andati (e che vivono) all’estero è praticamente raddoppiata (+97,5%) toccando il numero di oltre 6,1 milioni di cittadini iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero). Sono in maggioranza giovani tra i 18 e i 34 anni (circa 471 mila) o giovani adulti (poco più di 290 mila). Più di 228 mila sono minori. Ciò significa che partono famiglie intere. Così l’Italia, già afflitta dalla denatalità e dall’invecchiamento dei suoi abitanti, si spopola ancora di più. A patirne le conseguenze sono soprattutto i piccoli borghi e i centri minori. In mancanza di una politica demografica e di una visione a lungo raggio, la spesso miope classe dirigente di questo Paese, senza distinzione di schieramenti, ha fatto di necessità virtù: visto che le ondate migratorie, in particolare da Africa e Asia, non si riescono né a contenere né, men che meno, a governare, ha iniziato a vedere coloro che arrivano dall’estero non tanto o non solo come potenziali cittadini, legittimi destinatari di diritti (e doveri), ma come tappabuchi dei problemi demografici e pensionistici dell’Italia. Il che la dice lunga sulla reale considerazione che si porta ai migranti, al di là della solita filantropia di facciata.
Resta il fatto che chi è disperato accetta qualsiasi condizione di lavoro, finendo spesso sfruttato e ricattato a causa della sfavorevole situazione esistenziale che si trova a vivere, sia esso un profugo o un migrante economico, e dunque rinuncia più facilmente a rivendicare il riconoscimento dei propri diritti. Non si spiegherebbe altrimenti perché mentre guardano solo a sud e a est del pianeta, alcune istituzioni, anche nel mondo imprenditoriale, sembra abbiano «perso di vista» l’ovest, in particolare l’Argentina e il Brasile dove da anni gli italo-discendenti chiedono di poter tornare a vivere e a lavorare nel Paese dei loro antenati, con un distinguo che, però, diventa un boomerang: a patto che vengano rispettati i diritti riconosciuti dalle leggi italiane, vale a dire contratti, dignità, lavoro in regola, esercizio dei diritti di cittadinanza. Nulla di trascendentale insomma. Eppure, o forse proprio per questo, gli italo-discendenti, che la politica fa spesso finta di non vedere, continuano a rimanere invisibili, complici anche ministri e parlamentari poco avveduti e, non di rado, apparati ministeriali e governativi che tifano vuoi per la maggioranza vuoi per l’opposizione facendo anche degli italo-discendenti materia di contesa politica. Fuori dell’Italia c’è una seconda Italia che, in base a varie stime, potrebbe arrivare a contare circa 80 milioni di italo-discendenti. Molti di loro hanno fatto fortuna. Tuttavia sussistono ancora sacche di disagio economico, soprattutto in Argentina, in Venezuela e in alcune aree del Brasile.
Un futuro con radici nel passato
Dei lacci e lacciuoli burocratici che azzoppano le ambizioni degli italo-discendenti di trasferirsi in Italia si è discusso anche alla Camera dei deputati, il 18 ottobre scorso, in occasione del seminario dal titolo «Cittadinanza italiana: uno sguardo al futuro senza dimenticare le radici», organizzato dall’Auci (Avvocati uniti per la cittadinanza italiana) e dall’Agis (Associazione giuristi iure sanguinis). L’obiettivo dell’evento era affrontare il delicato tema del riconoscimento della cittadinanza italiana. Si è rilevato che, in questo quadro, diventa centrale l’urgenza di dare voce agli italo-discendenti che, secondo l’art. 1 della legge n. 91/92 e le leggi che l’hanno preceduta, hanno il diritto al riconoscimento del possesso della cittadinanza attraverso il principio dello ius sanguinis. All’estero, in particolare in America del Sud, vivono centinaia di migliaia di italo-discendenti che spesso parlano l’italiano, e condividono la nostra cultura, i nostri valori e le nostre radici.
Oggi l’Italia ha bisogno sia di manodopera che di operai specializzati, ma anche di tecnici, di laureati, di ingegneri, di medici e infermieri pronti a venire qui a lavorare. Perché guardare solo all’Asia o all’Africa? Secondo Riccardo De Simone – avvocato cassazionista e socio fondatore di De Simone & Partners, che da oltre vent’anni assiste sia famiglie che imprese di italo-discendenti nella gestione dei rapporti di diritto internazionale privato con l’Italia e viceversa –, «c’è una mancanza di conoscenza dell’Italia fuori dall’Italia, e del gran numero di discendenti italiani residenti nelle Americhe, che al contrario vorrebbero essere più coinvolti nei piani economico-sociali del proprio Paese d’origine per uno spirito di appartenenza che forse noi italiani residenti in Italia abbiamo un po’ perso o diamo per scontato».
Sul punto è d’accordo anche Oscar De Bona, presidente dell’Unaie (Unione nazionale associazioni immigrati ed emigrati) e dell’Associazione Bellunesi nel mondo: «Coinvolgere le comunità di discendenti italiani del Brasile e dell’Argentina consentirebbe di risolvere in partenza diversi problemi. Innanzitutto quello della cittadinanza: molti di questi sono già cittadini italiani, e non ci sarebbero problemi di permessi. Conoscono la lingua italiana o hanno già un livello base. Culturalmente hanno le nostre stesse radici e, per quanto riguarda i titoli di studio, soprattutto in Argentina, molti di questi sono già equiparati. Basterebbe fare la traduzione con autenticazione tramite apostille. Abbiamo un grande bacino d’utenza, ma sembra che solo le nostre associazioni ne siano a conoscenza nonostante il fatto che da anni ci rapportiamo con gli enti istituzionali. Come Unaie abbiamo siglato un accordo con Confcommercio nazionale che prevede proprio l’avvio di una collaborazione per far rientrare i nostri discendenti nei settori commerciale, ricettivo e della ristorazione. Gli italo-discendenti che hanno già la cittadinanza italiana sono più motivati a trasferirsi e a portare con sé la propria famiglia. In seguito potranno far venire anche altri parenti che non hanno la cittadinanza, ma che potranno richiederla al loro arrivo».
Quindi anche le associazioni d’emigrazione possono avere un ruolo attivo. Eppure sono anch’esse azzoppate. «Mi auguro che Regioni e Governo smettano di fare orecchie da mercante e ci ascoltino – incalza De Bona –. È chiaro che devono anche sostenerci economicamente. Penso alla Regione del Veneto che, negli ultimi dieci anni, ha ridotto il sostegno alle nostre associazioni del 78%. Dovrebbero avere la lungimiranza di vederci come un’opportunità e non come un peso o un carrozzone trainato da anziani. Non è così, e l’Associazione Bellunesi nel mondo lo dimostra».
Thamm Plus e Sant’Egidio
Con il mondo dell’impresa, Veneto Lavoro (ente della Regione del Veneto) sta portando avanti una serie di iniziative, come spiega il suo direttore, Tiziano Barone, alla luce del fatto che circa «metà delle assunzioni previste dalle imprese regionali è di difficile reperimento per questioni demografiche, innanzitutto, ma anche per il disallineamento tra le competenze richieste dal mondo produttivo e quelle possedute dalla forza lavoro disponibile e, non da ultimo, per un cambiamento culturale che ha portato in particolare i giovani a dare al lavoro un senso diverso rispetto al passato». Questo vale tanto per le professioni tecniche e ad alta specializzazione che per le meno qualificate come, ad esempio, quelle dei camerieri o altre figure tipiche del settore turistico. Il progetto Thamm Plus va nella direzione di reperire all’estero figure professionali qualificate.
Thamm Plus e il protocollo siglato tra la Comunità di Sant’Egidio e i ministeri italiani dell’Interno, degli Esteri, del Lavoro e delle Politiche Sociali sono iniziative volte a promuovere la mobilità professionale regolare verso l’Italia. «Pur essendo caratterizzate da modalità operative autonome e flussi distinti – rammenta Barone – affondano le proprie radici nel quadro normativo previsto dall’articolo 23 del Testo Unico sull’Immigrazione (ex titolo di prelazione che prevede l’extra quota dal Decreto annuale sui flussi), che disciplina l’accesso regolare in Italia di lavoratori di provenienza extra Unione Europea, previa la partecipazione a percorsi di formazione svolti nei Paesi d’origine». Nell’ambito del progetto Thamm Plus, la Direzione Lavoro della Regione del Veneto e Veneto Lavoro hanno avviato fin da subito «un tavolo di confronto con le associazioni datoriali e sindacali per favorire la massima partecipazione del territorio all’iniziativa. In particolare Confindustria Veneto e Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa) hanno contribuito alla rilevazione dei fabbisogni delle imprese venete».
Thamm Plus, finanziato dall’Unione Europea e dall’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), «intende facilitare la mobilità di forza lavoro ri-qualificata e formata, tra i Paesi nordafricani e l’Italia, per fronteggiare le carenze di manodopera individuate congiuntamente dalle autorità marocchine, tunisine e italiane attraverso due principali schemi: uno tra Tunisia e Italia nel settore edile, e uno tra Marocco e Italia nel settore della meccatronica. Il secondo schema di mobilità, in particolare, coinvolge i Servizi pubblici per l’impiego delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, dando l’opportunità alle aziende di questi territori di soddisfare i fabbisogni occupazionali attraverso l’assunzione di professionisti qualificati, partecipare ad attività di formazione gratuite ed esplorare il potenziale del Nord Africa come mercato del lavoro ed economico. Nel corso di 36 mesi di attività, il progetto prevede l’assunzione di 500 lavoratori nelle imprese del settore meccatronico in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto».
Accanto a questo c’è il protocollo di Sant’Egidio che si affianca al Decreto flussi per rispondere al fabbisogno di manodopera emergente in Italia attraverso la formazione professionale, linguistica e civica di lavoratori provenienti da Paesi extra UE. «L’iniziativa – precisa Barone – prevede l’assunzione di 300 lavoratori provenienti da Libano, Etiopia e Costa d’Avorio in tre regioni italiane: Calabria, Lazio e Veneto, con l’obiettivo di sostenere il Sistema Paese nello sviluppo del mondo del lavoro, con particolare riguardo ai settori infermieristico, turistico e della logistica». Oscar De Bona, presidente dell’Unaie, valuta queste iniziative positivamente, ma ricorda che come Associazione Bellunesi nel mondo già «nel lontano 1967 avevamo avviato un’iniziativa simile assieme ad Assindustria Belluno, facendo rientrare nel Bellunese 500 emigranti. Questo dovrebbe essere un esempio, coinvolgendo anche i nostri discendenti: figli, nipoti e pronipoti dei nostri emigrati che potrebbero rientrare in Italia». Veneto Lavoro ha un dialogo aperto con le associazioni dei veneti nel mondo. «Con l’Argentina – conclude Barone – è stato avviato un dialogo per definire percorsi di ricerca e selezione per le imprese italiane. In questo ambito, l’agenzia nazionale Sviluppo Lavoro Italia ha un progetto specifico». Intanto da quest’anno potrebbero arrivare in Italia gli infermieri dall’India, Paese al quale il ministro della Salute, Orazio Schillaci, guarda con favore.
Puoi leggere la seconda parte del dossier nel numero di gennaio del «Messaggero di sant'Antonio» - edizione per l'estero - (prova qui la versione digitale) e prossimamente su questo sito!