La via francescana in tempi di guerra

Dall’Ucraina al mondo, una rete di solidarietà, che ha il perno nei conventi e nelle parrocchie francescane, oggi aiuta migliaia di profughi di guerra. Una risposta immediata e concreta, a cui Caritas sant’Antonio vi invita a prendere parte.
05 Giugno 2022 | di

Di fronte a una guerra, quella in Ucraina, che nessuno avrebbe immaginato solo tre mesi fa, la sfida più grande anche per Caritas sant’Antonio è unire la preghiera per la pace a ogni sforzo per alleviare le sofferenze delle persone colpite e dei rifugiati. Un impegno senza precedenti, che ha coinvolto fin dai primi giorni gran parte dei conventi e delle parrocchie dei frati minori conventuali nel mondo, a partire dai cinque conventi in Ucraina e dai ventisette nei Paesi confinanti, Polonia in testa. Un’onda di solidarietà che oggi, attraverso i frati, collega l’Ucraina a ogni Paese dell’Europa e del mondo, una rete francescana di bene fatta di centinaia di volontari che ogni giorno lavorano per assicurare accoglienza, cibo, medicine ma anche assistenza spirituale e psicologica e formazione per i più piccoli. I conventi più vicini alle zone di conflitto accolgono i rifugiati in transito verso altri Paesi, quelli in Ucraina si fanno anche carico delle persone più fragili, in maggioranza anziane, che non hanno potuto o voluto andarsene all’estero.

Ogni giorno i frati ucraini, grazie all’aiuto di 37 volontari, riescono ad accogliere 130 sfollati e assicurare un pasto ad almeno altre 100 persone. Dai conventi più lontani arrivano materiali di vario genere, ma soprattutto fondi per poter continuare a sostenere gli aiuti nel tempo, qualsiasi esito abbia la guerra. Colpisce la capacità di collaborare con altre congregazioni, con le organizzazioni laiche di solidarietà, con gli amministratori locali e persino con esponenti di altre religioni. «Se la pace è infranta – afferma fra Valerio Folli, responsabile di Caritas sant’Antonio –, l’unico modo che resta per riportarla nelle nostre vite è umanizzare l’inumano insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Non dobbiamo lasciare l’ultima parola alla violenza. Per questo, pur continuando ad assicurare l’aiuto di Caritas sant’Antonio in 34 Paesi del mondo, il nostro impegno prioritario sarà a favore dei rifugiati ucraini e della ricostruzione di parti importanti delle loro vite nel lungo termine».

Il frate ucraino

Fra Nicola Orach, parroco della parrocchia di Sant’Antonio a Leopoli e guardiano del convento, è anche il responsabile degli aiuti in Ucraina. Fin dai primi giorni ha trasformato il convento in un centro di accoglienza per i profughi, diretti in Europa. Il confine con la Polonia è ad appena 70 chilometri. La voce tradisce stanchezza e preoccupazione, ma anche grande fermezza: «La guerra c’era dal 2014 ma non mi sarei mai aspettato che la situazione precipitasse in questo modo. È duro parlare di pace sotto gli allarmi missilistici e la minaccia di tornare indietro nella storia, schiavi di un regime che ci vuole schiacciare. Non abbiamo alternativa alla vittoria, anche se la libertà ci costerà cara». La sofferenza e la paura traspaiono dai volti dei parrocchiani e dei rifugiati che passano da qui. «È difficile affrontare i loro sguardi. Prima di essere un francescano sono un uomo preoccupato per la sorte della mia gente e della mia Patria. Il mio essere francescano in questo contesto è stare vicino a questi visi sconvolti, alimentare la speranza. Se vogliamo farcela, ognuno deve stare al suo posto. Non possiamo arrenderci al caos e alla paura».

I frati in Ucraina, una quindicina, hanno cinque conventi, tre a Nord ovest, Leopoli, Mackivci e Bil’shivtsi e due a sinistra del fiume Dnieper, uno a Boryspil, 30 chilometri a sud di Kiev, e l’altro nel Centro dell’Ucraina, a Kremenchuk. Negli ultimi due, più esposti alla guerra, è rimasto solo un frate per convento: «Abbiamo trasferito verso Ovest i frati anziani e i polacchi, i quali, essendo cittadini dell’Unione Europea, sarebbero stati più a rischio». In Ucraina i cattolici sono pochi e le parrocchie francescane hanno massimo trecento fedeli. «Siamo come grandi famiglie, dove ci conosciamo tutti. Non potevamo lasciare la gente sola proprio adesso. Chi è rimasto è terrorizzato e privo di mezzi. Alcuni anziani si sono trasferiti dai frati, dormono e mangiano al convento. Durante gli allarmi aerei, molti si rifugiano nei nostri sotterranei, perché dicono di sentirsi più al sicuro».

Nonostante le difficoltà, da Leopoli, città relativamente più tranquilla, che è diventata un hub di smistamento per gli aiuti che vengono dall’Europa e soprattutto dalla Polonia, gli stessi frati partono con pulmini stracolmi di aiuti alla volta di Boryspil e Kremenchuk, anche nelle fasi più aspre del conflitto. Quando trovano il modo, riescono a trasportare qualche carico fino a Odessa – anche se in quella zona non ci sono conventi – grazie ai contatti con la Chiesa locale. I tre conventi a Ovest, e in particolare quello in cui vive fra Orach, sono diventati punti di riferimento per i profughi: «Stanno da noi per una, due notti, il tempo di riprendersi, prima di partire per l’Unione Europea. Offriamo cibo, alloggio, ma anche la possibilità di farsi una doccia, di cambiare vestiti, di ottenere medicine».

Tra le mura dei conventi si consumano drammi familiari: «Vedo con i miei occhi i mariti accompagnare mogli e figli al confine, prima di ritornare indietro per combattere. Si fermano a cena da noi, in silenzio stringono le mani delle mogli. I coniugi si cercano con gli occhi intensamente, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta. Trattengo le lacrime a stento, non posso piangere». I bambini sono un enigma: «L’altro giorno parlavo con una madre di Mariupol. Mentre mi descriveva la situazione della città esprimendo tutto il suo dolore, il figlio di 6 anni continuava a giocare come nulla fosse. È così anche per gli altri piccoli, è come se non volessero vedere e sentire, una forma di auto protezione credo, mi auguro. Ce lo diranno gli psicologi».

Poi ci sono anche le soddisfazioni, come il bambino sopravvissuto con la famiglia per una settimana nello scantinato di casa sotto le bombe di Mariupol «che torna a sorridere per la prima volta proprio qui». La gente viene a Messa con la brama di un assetato in cerca d’acqua: «Ma io non ho parole, non so cosa dire alle persone. Non ce la faccio. Sarei banale. E allora mi affido alla Parola di Dio, che dice “non abbiate paura”, “convertitevi”, “non fatevi contaminare dall’odio”, “non cercate vendetta”. Abbiamo bisogno di questa Parola, ne ho bisogno per primo io che sono un francescano. E i parrocchiani ascoltano con un’intensità inusuale, silenziosi, assorti, l’unica Parola capace di consolare, l’unica efficace, vi assicuro».

Fra Lucian, staffetta rumena

Anche i frati dei Paesi confinanti, tutti appartenenti all’ex blocco sovietico, sono sotto shock. Ognuno cerca di fare il possibile per limitare le sofferenze. A inizio maggio, a poco più di due mesi dallo scoppio della guerra, i profughi usciti dall’Ucraina erano oltre 5 milioni e mezzo, un’emergenza umanitaria di un’entità mai vista in Europa, neppure ai tempi delle guerre nell’ex Jugoslavia. I conventi più attivi nell’accoglienza dei profughi sono proprio quelli polacchi, in particolare quelli della provincia di Cracovia, che mettono a disposizione ogni giorno 135 posti letto e animano oltre 260 volontari, in collaborazione con la Caritas, l’Arcidiocesi di Cracovia e altre entità private. Poi ci sono frati che fungono da staffetta per portare in Ucraina i beni di prima necessità più difficili da trovare. Uno di questi è fra Lucian Mihai Bobârnac, responsabile del Centro sociale Sant’Antonio di Roman, in Romania, un uomo pratico, abituato a muoversi velocemente, che ha saputo costruire una rete di solidarietà non solo con altri frati, ma anche con il Banco alimentare e altre ONG.

«Nel Paese – spiega – c’è già un programma di accoglienza dei profughi organizzato dallo Stato e così, come frati rumeni, visto che ci troviamo abbastanza vicini al confine, abbiamo pensato che il modo più utile di aiutare l’Ucraina fosse quello di accogliere le richieste di aiuto che ci venivano direttamente dai nostri conventi e fare dei carichi di beni mirati alle necessità». Prima fra Lucian andava fino al confine e aspettava il confratello ucraino per passargli le merci. Poi è arrivato direttamente fino ai conventi dell’Ovest: «Il mio angelo custode mi ha sempre protetto – ride –. Parto la mattina presto. Fra Orach mi prepara tutte le carte che servono a passare i posti di blocco e una lettera di presentazione, dove c’è scritto chi sono, da dove vengo, che cosa trasporto e a favore di chi. L’ultima volta mi hanno chiesto se trasportavo giubbetti antiproiettile, che hanno bisogno di un permesso speciale. C’è un controllo serrato, è normale in zona di guerra».

Ritorna la sera tardi, stanco e soddisfatto: «All’interno dell’Ucraina c’è molto bisogno e io voglio fare la mia parte. Chi è scappato aveva più mezzi culturali ed economici e buoni contatti in Europa, ma chi è rimasto è in grave fragilità. I frati ucraini condividono tutto quello che hanno non solo con la gente ma anche con le istituzioni di base, come gli ospedali, gli asili, le scuole. Hanno costantemente bisogno di beni particolari, come per esempio alcuni farmaci». Molto spesso fra Lucian carica sul suo furgoncino anche alcuni profughi: «Al confine c’era una mamma con un bambino piccolo, diretta in Spagna – racconta –. Aveva con sé solo un piccolo zainetto e la fretta di allontanarsi dalla guerra. Li ho accompagnati in un centro profughi in Romania, sapendo che li lasciavo al sicuro. Tempo prima avevo portato a Černivci una suora ucraina, che, trovandosi in un convento in Grecia, aveva chiesto alla superiora il permesso di tornare nel suo Paese per dare una mano. La suora ha poi raggiunto alcune consorelle profughe nel nostro convento di Mackivci, dove tuttora ci aiutano ad accogliere la gente».

Portatori di pace

Profughi che aiutano profughi, frati fuori dall’Ucraina che aiutano frati dentro. I confini degli Stati e della guerra non sono i confini dell’umanità, i confini della Chiesa, i confini di san Francesco e di sant’Antonio. La guerra contraddice l’umano e persino l’aspirazione francescana a essere portatori di pace. Una contraddizione che fra Carlos Trovarelli, ministro generale dei frati minori conventuali cerca di dipanare: «Per noi francescani essere portatori di pace significa in primo luogo impegnarci, come ora, per la giustizia, stando vicino agli sfollati, ai sofferenti, ai feriti, ma significa anche appellarci alla giustizia di Dio, cercata nella preghiera, nel grido rivolto all’Altissimo perché salvi questo popolo e tutti quelli che soffrono a causa dell’ingiustizia. La nostra deve essere sempre una visione evangelica. Le guerre sono anche un mistero del cuore umano e non possiamo fare altro se non presentare a Dio questo mistero e chiedere il suo amore di perdono e il suo Spirito, perché Egli faccia nuove tutte le cose». Dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi: la via della misericordia, per arrivare passo passo, oltre i confini, gli steccati, gli odi e le guerre. È tutto quello che Caritas sant’Antonio vi chiede di condividere, in questo 13 giugno, festa di sant’Antonio, tra la preoccupazione per la pace e la speranza in un futuro in cui Dio faccia nuove tutte le cose.


Mentre infuria la guerra in Ucraina, Caritas sant’Antonio continua a sostenere progetti a favore dei profughi non solo in Europa, ma anche in Medio Oriente, in Africa e in Asia. In particolare, in Serbia e Bosnia Erzegovina (per i profughi della rotta balcanica), in Mozambico, Yemen e Myanmar. A riguardo è disponibile un approfondimento nel numero di giugno del «Messaggero di sant'Antonio». Prova la versione digitale della rivista!

Segui i progetti Caritas sant'Antonio su www.caritasantoniana.org

Data di aggiornamento: 06 Giugno 2022

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