La leggerezza del seme
Un’attività che spesso riempie un certo tempo delle nostre giornate è lamentarsi. Soprattutto quando non siamo contenti di come vanno le cose. La causa del lamentarsi può essere molteplice: un collega che non fa bene il suo lavoro, i figli che non si comportano come vorremmo, le condizioni meteo (è troppo caldo, troppo freddo, troppo umido), i vicini che non si sopportano più, e avanti così. Quasi sempre sono situazioni reali, che ci fanno sentire a disagio o ci creano disappunto: sicuramente è importante affrontare le questioni che abbiamo davanti, ma a volte finisce che ne facciamo una malattia che ci avvelena il cuore. Stare vicino a un lamentoso di sicuro non è molto bello, anche se talvolta dà materia per la conversazione: lo sfogo ci fa bene, ma il continuo lamentarsi logora. Dall’altra parte c’è l’accontentarsi: le cose non possono sempre andar bene, bisogna saper accettare quello che viene. Un atteggiamento accogliente verso quanto viviamo, capace di gioire per il buono che c’è (anche se magari è poco), ma che rischia di farci volare basso, perché a volte toglie il desiderio di migliorare e ci fa adagiare in un mesto vivere. Non sempre la cosa migliore è accontentarsi: tante volte importante è essere esigenti e darsi da fare perché le cose vadano meglio.
Anche in questo il Vangelo ci invita a riflettere: la proposta che Gesù fa ai suoi discepoli è sempre qualcosa di dinamico. Non elogia la staticità, la rigidità, l’inerzia, ma, al contrario, mette in guardia e ammonisce chi crede di essere a posto, arrivato, realizzato. Invita alla conversione, a vincere quella durezza di cuore che impedisce di vedere e di percorrere una strada diversa da quella sempre fatta. Non accontentarsi, non fermarsi. Suggestiva (e in qualche modo cruciale) è l’immagine del seme, utilizzata spesso, ma in modo molto significativo nel vangelo di Giovanni (capitolo 12). Il seme racchiude in sé un dinamismo grandioso: in qualcosa di piccolo e apparentemente insignificante c’è il principio di una pianta, anche molto grande! Ma l’inizio del processo che porta a questo esito è drammatico: il seme deve morire per portare frutto. Se non lo fa, rimane solo, fermo in quella posizione statica: può essere un po’ come chi si accontenta e non vuol andare oltre, perché teme di perdere qualcosa. Oppure come chi si lamenta sempre delle avversità in cui si trova ed è triste, incapace di generare vita. Se il seme invece muore, porta frutto: è quanto accade quando siamo disponibili a metterci in gioco di fronte alle situazioni, senza intrappolarci nel lamento né rassegnarci a quanto stiamo vivendo, ma decidiamo di coinvolgerci con fiducia e speranza. Certo, a volte può sembrare un’impresa titanica davanti alla quale ci sentiamo piccoli e insignificanti, come un seme: ma se troviamo la capacità di gioire per quel po’ di bene che c’è già e il desiderio di dirigerci verso qualcosa di più, verso quello che manca, allora è possibile.
Proprio la mancanza, ciò che non abbiamo e di cui avremmo bisogno per vivere bene, ci mette in difficoltà, non sappiamo come gestirla. Di nuovo, il Vangelo non solo invita a non lamentarsi ma chiama beati quelli che si trovano in queste situazioni: chi è nel pianto, chi è perseguitato, chi desidera avere giustizia. Ma questi come possono essere beati? Eppure, sembra dire Gesù, non è felice chi è arrivato e realizzato nella vita, ma piuttosto chi è in cammino, chi non crede di sapere già tutto, di aver compreso come stanno le cose, chi ha l’umiltà di fermarsi e dialogare, di riconoscere che prima dell’aver ragione c’è la persona che abbiamo davanti, che è degna di rispetto e di attenzione, anche se un po’ ci fa perdere tempo, magari proprio con il suo lamentarsi.
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