«La missione è la gente»
Si è presa cura dei lebbrosi in Sud Sudan, dei beduini in Palestina, si è dedicata agli ultimi in Etiopia, Giordania e nel Regno Unito e ha denunciato per prima la tratta che schiavizzava migliaia di persone nel Sinai. Per questo, la comboniana suor Aziza, 67 anni, di origini eritree ma oggi cittadina britannica, al secolo Azezet Habtezghi Kidane, è stata insignita del premio «Trafficking in People Report Hero Acting to End Modern Slavery», dall’allora Segretaria di Stato americana Hillary Clinton. La sua storia è raccontata dalla giornalista Alessandra Buzzetti nel libro Oltre i confini – In missione dall’Africa alla Terrasanta (Libreria Editrice Vaticana), con la prefazione del cardinale Pierbattista Pizzaballa. Al momento, suor Aziza risiede in Italia, a Brescia, ed è in forze all’Ufficio migranti della diocesi, dove la sua conoscenza delle lingue e delle culture «altre» è preziosa. «Ovunque mi chiedano di andare, per me è missione. La missione non è territoriale, non è il Paese, è la gente, e la gente mi affascina. A mio avviso non esiste né primo né ultimo mondo. La missione è stare con chi ha bisogno, testimoniare l’amore di Dio, essere umani con l’umanità, stare nel bisogno di oggi». Parlare con suor Aziza è affascinante perché, pur nell’eccezionalità della sua missione, a emergere è il suo essere pienamente umana, dentro gli alti e bassi della vita.
Msa. Suor Aziza, la denuncia della tratta di esseri umani nel Sinai le ha fatto guadagnare un riconoscimento internazionale, ma le ha tolto la possibilità di tornare a casa.
Suor Aziza. Sì. Non mi hanno rinnovato il passaporto perché, grazie alla mia testimonianza, gli inquirenti sono riusciti ad arrivare all’apice della catena che guidava il traffico di esseri umani, scoprendo che vi erano implicati anche dei cittadini eritrei.
Quanto le fa male non poter tornare?
Con quel diniego non mi è stata tolta solo la mia nazionalità, ma anche la possibilità di rientrare nel mio Paese, di rivedere i miei cari e il popolo che amo.
In generale, la Chiesa cattolica non se la passa benissimo in Eritrea.
È quasi un paradosso. Uno dei primi Paesi del mondo ad adottare il cristianesimo come religione di Stato (IV secolo d.C.), oggi vive una delle più cruente persecuzioni al mondo contro chi professa la fede in Gesù. I religiosi vengono arrestati o fatti sparire. Tutte le opere sociali gestite dalla Chiesa cattolica, inclusi dispensari, scuole, e presidi sanitari, sono state nazionalizzate. Il presidente Isais Afwerki si professa cristiano, ma ha sostenuto le milizie islamiche radicali di Paesi come la Somalia in funzione anti etiopica, viola i diritti umani, ha moltiplicato le detenzioni arbitrarie, ha ridotto il Paese a una sorta di prigione dalla quale migliaia di disperati continuano a cercare di fuggire.
È vero che il suo sogno di ragazzina era la corsa?
Mi è sempre piaciuto tantissimo correre. Avevo talento, tanto che facevo parte di una squadra di velocisti. Mi ero qualificata per le finali delle competizioni regionali, ma mio padre mi vietò di partecipare perché cominciavo a mostrare le forme della pubertà. Il sogno si infranse, ma l’allenamento agonistico si è rivelato molto utile, in termini di resistenza fisica, nelle tante situazioni difficili con le quali mi sono dovuta poi confrontare nella vita.
Suo padre torna spesso nei suoi racconti. Un uomo di «fede granitica», totalmente immerso nella sua cultura.
A un certo punto scoprii che stava organizzando il mio matrimonio con un giovane. Le trattative tra le famiglie erano quasi concluse. Ma io non avevo alcuna intenzione di sposarmi. Volevo prendere i voti. Mi caricai sulle spalle un fagotto con le mie cose, e mi incamminai, cinque ore a piedi, per poter bussare alla porta della comunità comboniana. Eravamo in piena guerra civile, e, nonostante il pericolo, le suore continuavano a proteggere i bambini dell’orfanotrofio, e ad assistere malati e feriti. Guardai un breve documentario sulla loro missione tra i lebbrosi del Sud Sudan. Mi tornò in mente che, quand’ero bambina, vicino a casa, avevo visto dei lebbrosi, li osservavo di soppiatto, impotente, pensavo fossero persone condannate, invece adesso scoprivo che c’era la possibilità di curarli. Sentii il cuore scoppiarmi nel petto, e in quel momento mi è nato il desiderio di dare tutta la vita per alleviare la sofferenza dei più emarginati.
Nel 1980 suor Aziza emette la professione religiosa. È decisa a pronunciare i voti perpetui ma, poco dopo, vive una crisi vocazionale.
Non sarà l’ultima, perché la vita religiosa non è lineare. Ero andata a trovare i miei genitori che non vedevo da un po’, e rimasi scioccata dalla loro condizione indigente. Dovevo occuparmi di loro, ma mio padre fu categorico: «Sei andata dalle suore contro la nostra volontà, ora non usare noi come pretesto per risolvere le tue crisi di fede». Non ho più dimenticato il suo sguardo e quelle parole.
E, tra le crisi, ce n’è anche una dovuta all’amore.
Avevo proprio perso la testa. Era un religioso come me. C’era un’intesa profonda tra noi. Mi chiese di lasciare l’abito e di sposarlo. Ho combattuto una battaglia interiore non facile, finché mi sono resa conto che la strada della mia felicità rimaneva la chiamata che Dio mi aveva rivolto, l’esperienza di un Amore unico e totale, che non avrei scambiato con nient’altro.
Lei arriva a Juba, nel Sud del Sudan, nel 1990, mentre infuria la prima guerra civile per l’indipendenza del Sud dal Nord. Il governo aveva anche introdotto la shari’a come legge di Stato, e aveva soppresso i diritti delle popolazioni non musulmane. Ha mai avuto paura?
Juba era completamente circondata dai guerriglieri. Ci occupavamo dei feriti, ammassati in una piccola clinica all’interno del nostro compound. Una domenica, decisi di accompagnare il comboniano padre Mattia tra le comunità indigene. Appena passato il check-point, mi chiese se volessi confessarmi. Perché? dissi: mi rispose che tutta la strada pullulava di mine, e il rischio di morire era alto. Lì ho avuto paura. Così come quando mi puntarono un mitra alla testa.
Essere straniera in un Paese in guerra significa godere di maggiore protezione?
Sì, con tutte le conseguenze in termini di sensi di colpa. Come quando mi salvai da un’esplosione al mercato perché, all’ultimo momento, una sorta di voce interiore mi disse di non andare. Ci fu una strage di innocenti e io venni pervasa da un dolore immenso. Perché io ero stata preservata e loro no? Erano forse figli di un Dio minore?
Una domanda e un’angoscia che non si placarono neppure quando tornò a casa.
Le notti erano insopportabili. Appena chiudevo gli occhi rivedevo, come in un film dell’orrore, tutte le scene di morte e violenza a cui avevo assistito. Rivivevo il grido sordo del mio cuore, la ribellione a Dio che permetteva tante morti innocenti. Dio non è il Padre di tutti? Ho impiegato un anno a uscirne. Un percorso di liberazione interiore avvenuto grazie alla preghiera.
Di nuovo un periodo nel Sud Sudan, a contatto con i «suoi» lebbrosi, e poi la Terrasanta.
Non c’ero mai stata. Non sapevo quasi nulla del conflitto israelo-palestinese. Avevo tante fantasie e tante aspettative sui luoghi santi, sulle strade che Gesù aveva percorso, sulle pietre che aveva toccato, sul sepolcro da cui era risorto. Ma i miei sogni romantici sono svaniti quasi subito. Mi ha sconcertata, in primo luogo, la divisione territoriale. Il muro di separazione entrava praticamente nella nostra casa. Nella Città Vecchia scontri e tafferugli erano all’ordine del giorno. Ho toccato con mano le ingiustizie, le sopraffazioni, le limitazioni che subiscono soprattutto i palestinesi. A un certo punto, dalla rotta del Sinai cominciarono ad arrivare profughi africani. Sul corpo avevano bruciature, segni di catene e di percosse. Parlai con loro. Ascoltai 1.600 persone. Venne alla luce una tratta di esseri umani, gestita da una rete internazionale di trafficanti. Ascoltare le loro sofferenze spesso mi conduceva allo sfinimento. Portavo il dolore davanti al Signore e gli chiedevo la forza per continuare. Decisi di denunciare. Il mio rapporto arrivò fino al Dipartimento di Stato americano. Fu difficile indurre le persone a fidarsi, soprattutto le donne vittime di stupro. Così, con un’amica ebrea, abbiamo creato il centro aggregativo Kuchinate. Lì, tra una sferruzzata e l’altra, le parole hanno cominciato ad affluire, ed è iniziata la loro guarigione. Nel 2024 il centro ha chiuso, ma non ho rimpianti, perché ho sempre saputo che a tenere i fili è sempre la mano di un Altro, e la vera opera è solo sua.
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