L'altro, un mio simile
Partecipavo, anni fa, a un incontro in cui si discuteva di convivenza tra persone appartenenti a religioni differenti e fu proiettato un cortometraggio che raccontava l’innamoramento tra un ragazzo italiano e una ragazza turca. La madre di lei oppose un rifiuto assoluto alla relazione e impedì alla figlia di restare in contatto con il giovane italiano. Questi venne a sapere che l’ostacolo alla loro relazione era il fatto che lui non era musulmano. E non capiva. Il cortometraggio si chiudeva con un grande punto interrogativo. Quel punto interrogativo può sigillare molte domande, ma qui chiede conto dello spegnimento, per motivi religiosi, di un futuro che due giovani stavano creando. Perché una differenza religiosa deve soffocare l’amore e spegnere la bellezza dell’incontro? Siamo di fronte a una delle ricadute nel quotidiano delle nostre società multireligiose di declinazioni fondamentaliste del religioso. Dove fondamentalista indica il sovrapporsi di usanze tradizionali, dati culturali o politici sul nucleo mistico di una religione. La macrostoria ha ricadute sulla microstoria e produce pregiudizi, certezze tanto più gridate e violente quanto più fondate sull’ignoranza.
Oggi, nel contesto di pluralismo religioso, tanti problemi teologici non sono puramente teorici. Pensiamo alla verità, alle immagini di Dio e alle definizioni di fede. Una definizione di fede, un dogma, resta nello spazio della ricerca della verità che la supera e non la esaurisce. Un’immagine di Dio non è Dio, che è al di là di ogni immagine che l’uomo ne può dare e che ne danno gli stessi «testi sacri». Circa la verità ricordo le parole di Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Adveniente (1994) che parlano dell’atteggiamento di pentimento con cui i cristiani devono considerare «l’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio alla verità» (nº 35). Qui il punto interrogativo sigilla questa domanda: qual è la verità cristiana che accetta di lasciarsi servire dalla violenza? Non è forse una concezione della verità che pretende di sostituirsi alla Verità stessa che nello spazio cristiano è la persona di Gesù? Il contenuto della fede è onorato da come si vive la fede. Ma non si tratta solo della verità cristiana. Ogni religione può arrivare a scindere l’equilibrio di amore e giustizia che abita il nome di Dio e può arrivare a erigere muri, accendere conflitti e uccidere in nome di Dio. Chiediamoci: che cosa può salvare una religione dal fondamentalismo? Ricordare che la sua destinazione è l’humana communitas, non la propria cerchia di fedeli. Pena la caduta nella nefasta autoreferenzialità.
Dalla fede nel Dio creatore discende la visione utopica della fraternità-sororità universale: questo è il futuro che interpella il presente. Questa visione deve ispirare le azioni quotidiane e illuminare lo sguardo verso l’altro. Se la fraternità-sororità universale è un’utopia, le religioni sono chiamate a dare un luogo al futuro e a divenire eu-topie, cioè luoghi, esperienze storiche che si caratterizzino per ciò che è significato dal prefisso «eu», bene. Spazi di preghiera e adorazione di Dio così come di condivisione e convivialità, di ascolto e accoglienza dell’uomo che è l’immagine di Dio. Le religioni hanno il compito e la responsabilità di porsi come luoghi di salvezza dell’umano, dove la singola persona è considerata nella sua piena dignità per il suo semplice essere un umano. Ma bisogna aggiungere che le religioni possono essere salvate loro stesse grazie all’umano e alla centralità accordata al rispetto radicale di quel volto umano che è l’unica vera immagine del trascendente. E ciò che è veramente universale nella condizione umana e che le religioni si incaricano di assumere e risignificare sono la condizione di figli e la sofferenza.
Sarebbe anche il momento di riscoprire e valorizzare la categoria della somiglianza messa all’angolo da quella imperante e imperversante dell’alterità. Chi è l’altro? Anzitutto un mio simile. Un principio che si ritrova nella grande maggioranza delle religioni e tradizioni sapienziali del mondo è la regola d’oro sia nella versione positiva «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te» che in quella negativa. Essa chiede di considerare l’uomo come fine e non come mezzo, assumendo l’unico atteggiamento veramente essenziale per costruire relazioni improntate al bene: l’empatia. E soprattutto chiede di fare, di osare il primo passo rivolgendo la parola all’«altro», rischiando. Il nucleo mistico di ogni religione «porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Non si tratta semplicemente di rispetto dell’altro, ma di attiva cura di ogni persona e dell’umano che è in ogni uomo e ogni donna. Perché prendersi cura di uno solo è prendersi cura del mondo.
Anche il buon senso e la fiducia semplice nell’umano possono salvare le religioni dalle perversioni fondamentaliste. Amos Oz racconta che sua nonna spiegava come i cristiani (che credono che il Messia sia già venuto) e gli ebrei (che affermano che deve ancora venire) potrebbero vivere accanto pacificamente. «Perché non possiamo semplicemente aspettare di vedere? Se il Messia arriva e dice: “Salve, è bello rivedervi”, allora gli ebrei ammetteranno di avere sbagliato. Se, d’altro canto, il Messia arrivando dice: “Piacere di conoscervi”, allora tutto il mondo cristiano dovrà chiedere scusa agli ebrei. Per intanto, non resta che vivere e lasciar vivere». E come dimenticare il gruppetto di anziane signore che sul pullman tra Grottaminarda e Villamaina, in Irpinia, vedendo salire uno straniero che scopriranno africano del Gambia iniziano a interessarsi di lui, a chiedergli della sua vita e a raccontare della loro esperienza di vita creando così un clima di accoglienza e simpatia? Questa sana curiositas, ricorda l’antropologo Maurizio Bettini riportando questo episodio, è la versione aggiornata dell’homo sum, humani nihil a me alienum puto. L’umano salva il religioso.
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