Incontrarsi nel silenzio
Ciechi, pigri e chiacchieroni, siamo. I Vangeli sono racconti pieni di azione. Gesù attraversa villaggi, sale sulle barche, entra nelle case, mangia, predica, si muove veloce per andare da Lazzaro. Chi vuole ascoltarlo si alza, cammina, lo segue. Il racconto della risurrezione è un concentrato di verbi di movimento: Maria di Magdala si recò al sepolcro, corse poi da Simon Pietro, che uscì insieme a Giovanni, correvano insieme ma Giovanni più veloce giunse prima, si chinò e vide. I teli posati. Ecco, vide. Non il Risorto, non Lui. Videro l’assenza di Lui (Gv, 20). Tutto questo andare, partire, correre, per vedere alla fine che Gesù nel sepolcro non c’è. Come aveva preannunciato. E loro, i discepoli e le discepole, poterono vedere dentro quell’assenza con gli occhi di chi sapeva leggere, perché prima lo avevano seguito, ascoltato, avevano fatto tesoro di un mare di parole, anche quando non le avevano capite.
A noi l’assenza fa solo imprecare. Ma come?! Non mi risponde. Ho mandato un sms da dieci minuti, c’è la doppia spunta e non risponde. Gli ho scritto una mail e niente. Mi arrabbio. Mi offendo. Noi dall’assenza non impariamo niente. La riferiamo a noi stessi. Non mi considera. Non mi ama abbastanza. Non sono importante per lui. Lei. Il silenzio dell’altro ci inghiotte. O terrorizza. Possiamo fare cose inconsulte, davanti a un silenzio. Ci sentiamo lasciati cadere. I figli non rispondono. Eppure sono iperconnessi e lo sappiamo. Se non rispondono, pensieri di morte ci possiedono. O di rabbia, quando scopriamo che semplicemente hanno fatto quello che tutti i figli dalla notte dei tempi fanno, cioè sottrarsi al controllo, ritagliarsi spazi di libertà. E intanto chiacchieriamo e riempiamo le chat di parole buttate là, fucilate furiose che non sanno contenere la grazia di un pensiero.
Quante volte questo capita nei nostri rapporti. È una patologia da mancanza di rapporto. I veri rapporti vivono di presenza, di parole ascoltate e dette. Di appuntamenti, di movimenti, incontri. E di assenze, perché le esperienze non si perdono quando l’altro è lontano. Per lavoro, studio o per un individuale bisogno di solitudine. O perché muore e non è più con noi qui nel tempo dei nostri giorni che invece ci rimangono affidati. Ma proprio il bene che c’è stato può accompagnare il silenzio dell’assenza, e riempirlo di comprensione, fiducia, gratitudine per tutto quello che si è avuto insieme. E anche di speranza che l’amore vissuto rimanga per sempre. Ecco la risurrezione. È questa la nostra fede.
Certo, poi i vangeli (Mc, 16) ci raccontano che ci fu chi non credeva e non bastavano le testimonianze di Maria di Magdala e dei due camminanti di Emmaus. Non credevano proprio. Sant’Antonio a questo proposito, nei suoi Sermoni, riconosce una ostinazione di Gesù risorto che si mostra e compare ancora e ancora, compare ai suoi discepoli dieci volte, fino a estirpare, l’ottavo giorno dalla risurrezione, ogni dubbio anche dal cuore di Tommaso. L’ultimo apostolo ancora incredulo, per il quale nemmeno il vedere era sufficiente. Ed è così. Il vedere non è definitivo. Può essere autoillusione e inganno. Anche quando a vedere siamo noi. Se poi pensiamo a quanti veggenti si sono mostrati ingannatori. Ecco, anche il vedere non è sufficiente se non abbiamo gli occhi che sanno leggere. Cioè se non siamo stati in compagnia del Signore, non abbiamo fatto esperienza di una vita che scorre dentro la relazione con lui e con i fratelli e per questo non muore. Vive della promessa, sostenuta dal ricordo, piena di speranza. E allora i nostri giorni sono ancora pieni, anche quando scende il silenzio.
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