L’angelo delle donne
«Perché papà tu preghi e non dai le medicine?» «Perché sono un pastore, non un medico». «D’accordo. Allora tu continua a pregare, io darò le medicine». Questa brevissima conversazione avuta con il papà all’età di 8 anni, segna il futuro di Denis Mukwege, oggi conosciuto come «il medico che ripara le donne». Nato a Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), il primo marzo 1955, laureatosi in medicina in Burundi, con specializzazione in ginecologia e ostetricia ad Angers, in Francia, oggi il dottor Mukwege è considerato il massimo esperto nella ricostruzione interna dell’apparato genitale femminile deturpato dopo una violenza sessuale. Nel 2008 ha fondato la «Dr. Denis Mukwege Foundation», che supporta, dal punto di vista psicologico, economico e legale, una rete mondiale di persone che hanno vissuto l’orrore. Il dottor Denis è anche un attivista per i diritti umani; cerca di portare all’attenzione della comunità internazionale e dei media ciò che sta accadendo nel suo Paese, ovvero lo stupro sistematico delle donne da parte dei vari gruppi di guerriglieri, che si contendono le risorse naturali e minerarie, in primis coltan, cobalto e litio, la «maledizione del terzo millennio», perché essenziali per far funzionare telefonini, pc e tablet.
Per il suo impegno, il dottor Mukwege, che di recente si è candidato alla presidenza della Repubblica Democratica del Congo, ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui il Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani (2008), il Premio Sacharov 2014 per la libertà di pensiero, il Premio Sunhak per la pace di Seul, Corea del Sud (2016) e il Nobel per la pace (2018). Le Università di Edimburgo e Harvard gli hanno conferito la laurea honoris causa. Il documentario The man who mends women - The wrath of Hippocrates («L’uomo che ripara le donne - L’ira di Ippocrate») illustra la sua vita e il suo lavoro. Ho avuto il privilegio di incontrare il dottor Mukwege in occasione del Meeting Mondiale sulla fraternità umana, svoltosi in Vaticano gli scorsi 10 e 11 giugno.
L’orrore che non ha voce
«La Repubblica Democratica del Congo vive da trent’anni un conflitto continuo – racconta Mukwege –, che ha registrato 6 milioni di morti e 5 milioni e mezzo di sfollati interni. Secondo le Nazioni Unite, la crisi umanitaria colpisce il 30% della popolazione. Il prezzo più alto lo pagano i bambini e le donne». Donne violentate senza pietà, torturate fisicamente e psicologicamente, piagate nella mente e nello spirito, rinnegate dalle famiglie. Come Alphonsine, rapita nella notte da una milizia armata, stuprata ripetutamente per mesi. Nessuna compassione neanche quando rimane incinta, anzi, la pugnalano all’addome mentre è in travaglio. Il bambino non ce la fa. Portata in ospedale, ormai in fin di vita, sopravvive a oltre quattordici interventi chirurgici.
«Quando, nel 1999, abbiamo aperto l’ospedale Panzi a Bukavu, era per curare i feriti di guerra e per far nascere i bambini – continua il dottore –. Ma, quando mi è arrivata la prima paziente, sono rimasto scioccato. Aveva i genitali devastati. Non avrei mai immaginato che un essere umano potesse arrivare a fare una cosa del genere. Ho pensato: sarà stato un folle. Si tratterà di un caso isolato. Invece, da venticinque anni mi confronto con le stesse atrocità. Con il mio staff abbiamo curato più di 85 mila donne, al ritmo di anche dieci interventi al giorno. Ho capito che la violenza è usata come arma di guerra. Le vittime devono essere brutalizzate affinché non possano più avere figli. E lo stigma sociale recide i legami delle comunità. Si pensi che prima dell’inizio dei vari conflitti, nel 1996, in nessuna delle circa duecento lingue parlate in Congo, esisteva la parola stupro. Compreso tutto questo, ho cominciato a denunciare, prima nel mio Paese, poi all’estero». Nel 2012, dopo il suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’abitazione dei Mukwege viene attaccata da quattro uomini armati. La guardia del corpo viene uccisa. Il dottor Denis e la sua famiglia riescono a fuggire in Europa. Ma le pazienti gli chiedono di tornare, arrivando a raccogliere una cifra simbolica per pagargli il biglietto aereo. Dal 2013 è di nuovo in Congo, vive blindato nel compound dove si trovano le strutture della Panzi Foundation, protette dai caschi blu della Monasco, la Missione Onu nella RDC. «La mia vita è difficile. Tutta la mia famiglia è a rischio. Ma mia moglie Madeleine e i miei figli mi appoggiano. Accetto di vivere in queste condizioni per il coraggio che ho visto nelle donne».
Nel frattempo, l’ospedale lavora a spron battuto: quasi 5.300 persone sono state supportate dal punto di vista psicologico, tanto che il tempo di elaborazione di alcuni casi di violenza è passato da sei a tre mesi. Ma la buona notizia è rappresentata soprattutto dagli oltre 4.100 bambini nati, con un tasso di nati vivi del 99,1%, e dal tasso di mortalità materna dello 0,19%, in un Paese che detiene il record dei tassi di mortalità più alti al mondo. Nel compound Panzi vi sono anche strutture-rifugio per le donne e i loro figli, scuole di alfabetizzazione e professionalizzanti. Grazie a questi corsi, nel 2020, oltre 2.600 donne hanno potuto cominciare a rifarsi una vita.
Come Alphonsine, che oggi è un’infermiera professionale, e opera negli stessi reparti dove lei stessa era stata curata, restituendo l’amore che ha sentito su di sé. L’essere umano a volte va oltre l’impossibile. «Si può sfidare l’impossibile quando, come nel mio caso, si è cresciuti con una madre dura, ma eccezionale – dice ancora Mukwege –. Quando mi ha partorito, in condizioni igieniche fatiscenti, ho avuto un’infezione ombelicale. Ha capito subito che non mi sarei salvato se non si fosse recata in un centro sanitario. Ma c’erano tre ostacoli: eravamo poverissimi, eravamo neri sotto la colonizzazione belga ed eravamo protestanti, senza certificato di battesimo, mentre i centri sanitari erano in mano ai cristiani. Poteva abbandonarmi, invece non si è arresa. Grazie a lei sono qui e, come lei, anch’io sto cercando di farmi ascoltare».
All’est del Congo operano 120 gruppi armati, sia nazionali che internazionali, tra cui vi è l’M23 (Movimento 23 Marzo), sostenuto da Ruanda e Uganda, e all’attenzione di Amnesty International per i suoi crimini. «Questi gruppi, che fingono di operare per il bene del Paese, in realtà si muovono solo per una questione di profitti, vogliono aumentare il caos per poter sfruttare le risorse. Questa non è una guerra etnica o religiosa. Questa è una guerra economica, provocata da aggressori esterni. Chiediamo che venga applicato il diritto umanitario internazionale, che impone a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale degli altri Stati. E chiediamo sanzioni per chi fornisce armi. L’M23 era stato sconfitto, ora dispone di armi sofisticate. Da dove arrivano?». Il grido sembra quello di papa Francesco. «È stato per me un onore incontrarlo – conclude il dottore –. È un uomo di fede, che da sempre opera per la pace. Dopo venticinque anni di guerra, il Congo più che mai ha bisogno di pace. È il sogno soprattutto delle donne che vogliono un futuro per i loro figli».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!