Le esigenze di una vita buona

Gli imperativi con cui Francesco termina il «Cantico» mettono alla prova il nostro modo di essere cristiani, sollecitandoci a fare della vita uno spazio di coralità, per la Parola di Dio, per le parole delle sorelle e dei fratelli, di ogni creatura.

Laudate et benedicete mi' Signore et rengratiate et serviateli cum grande humilitate.

Di suor Marzia Ceschia

Quattro imperativi chiudono il Cantico di frate Sole e un percorso in cui siamo stati provocati soprattutto a fare silenzio per reimparare a parlare. Siamo partiti dall’indegnità dell’essere umano a nominare l’Altissimo: solo nell’ultima strofa l’uomo è riabilitato alla parola, solo dopo essere passato per la via del perdono e della riconciliazione anche con la morte può nominare Dio. Sono parole positive quelle a cui è sollecitato, accompagnate da uno specifico modo di agire (servire) e da uno stile (l’umiltà). La lode creaturale ricolloca l’essere umano nella giusta consapevolezza: essere creature significa non possedere le fonti dell’esistenza, perché alla creatura è dato di ricevere la vita, non di produrla da sé. Tuttavia, la creaturalità non è debolezza disorientata, lasciata a se stessa, ma è possibilità, sempre aperta al futuro, di crescita, di relazione. Il Cantico – nei quattro imperativi – indica un’attitudine insieme «eco-logica» e «teo-logica», tale cioè da ricollocare nella sinfonia del creato il nostro vissuto e da risintonizzarci con il dirsi e il donarsi a noi di Dio. 

Laudate

Come vivere un’esistenza di lode? Si tratta di cambiare il tono di tante nostre parole, uscire dalla lamentela, dal concentrarci sul negativo, diventando cercatori di bellezza, sensibili al bene, capaci di intercettarlo e di collaborarvi. Significa metterci in rapporto con il Signore in tutto quel che viviamo. Di questo atteggiamento Francesco fa un punto fermo : «E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie a lui, dal quale procede ogni bene. E lo stesso altissimo e sommo, solo vero Dio abbia, e gli siano resi ed egli stesso riceva, tutti gli onori e la riverenza, tutte le lodi e le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché suo è ogni bene ed egli solo è buono. E quando vediamo o sentiamo maledire o fare del male o bestemmiare Dio, noi benediciamo, facciamo del bene e lodiamo Dio, che è benedetto nei secoli» (FF 49). Lodare è vincere il male con il bene (cf. Rm 12,21), è non lasciarsi vincere dal male. Restituire al Signore gli eventi, rimetterli cioè nelle sue mani, permette di aprirci a quello che essi possono diventare, oltre noi, oltre il nostro sentire, le nostre fatiche, le nostre resistenze. È vivere la speranza. 

Benedicite

La lode apre al «dire bene» che non dà per scontato né si ferma alla superficie. Benedire è confessare il bene che Lui opera nella nostra vita, quello che noi stessi riusciamo a operare e quello che operano gli altri. Dite bene del mondo, pare suggerirci Francesco, in tutto quel che potete, per essere in linea con lo stile del Signore che «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). La benedizione è il risultato dell’«attaccamento alla carità» cui san Paolo esorta nella lettera ai Romani: «Detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. […] Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite» (Rm 12,9-11.14). La benedizione è dunque forza contraria e resistente a ogni impulso di odio, di violenza, di rivendicazione, annullandone la potenza distruttrice e divisiva. 

Rengratiate

La lode e la beatitudine liberano il cuore dalla pretesa, formandoci alla gratitudine che sa cogliere il dono, il «non meritato» nella nostra vita. Uscendo dalla logica della conquista e dell’efficienza, diamo con uno spirito diverso, non per dovere o per avere il contraccambio, ma lieti di vedere il bene fiorire negli altri e attorno a noi. Dice Francesco nella XVII ammonizione (FF 166): «Pecca l’uomo che vuol ricevere dal suo prossimo più di quanto egli non voglia dare di sé al Signore Dio». È l’invito a convertire la tendenza a proteggere il proprio interesse nella gratuità che non si misura. 

Serviateli

Il servizio è la conseguenza pratica di un cuore grato e benedicente. L’essere «servo» è per Francesco la connotazione del credente. «Beato il servo che» è l’incipit, infatti, di quasi tutte le sue Ammonizioni. Il santo associa il servizio alla minorità e alla sottomissione agli altri: non si tratta di essere in balìa di tutti, ma di avere in sé quella carità che sa obbedire alle esigenze profonde del fratello, ascoltandole. È un tipo di obbedienza che Francesco contempla anche tra le creature, ma nell’essere umano essa è frutto di scelta. Servire l’altro è servire alla sua crescita, alla sua fede, al manifestarsi della sua ricchezza, con sguardo libero, pronti a sorprendersi. Gli imperativi con cui Francesco termina il Cantico mettono alla prova il nostro modo di essere cristiani, di collaborare alla costruzione del Regno, sollecitandoci a fare della nostra vita uno spazio di coralità, per la Parola di Dio, per le parole delle sorelle, dei fratelli, di ogni creatura.

Prima la gioia, poi l’umiltà

Una umiltà senza la lode, non preceduta dalla gioia, diventa egocentrismo e finisce per farci assomigliare a quei cattolici dal «collo torto», obliqui nel dire e nel fare, in apparenza umili ma in realtà pieni di livore.

Di Davide Rondoni

Alla parola iniziale – Altissimu – fa eco, fa cortocircuito, fa scintilla di fuoco quella finale grande humilitate. La umiltà non è un abbassarsi malinconico o depresso, non è un volare basso per carattere o a volte comodità. No, è il cortocircuito del senso che un cuore e una mente hanno dell’Altissimu. Solo un forte sentire l’altezza e la sproporzione dell’Altissimu motiva, nel senso che muove, è motore, a una autentica umiltà. Che non è questione di temperamento (anche i grafologi confermano che quello di san Francesco era impetuoso e determinato) ma di giudizio, ovvero di atteggiamento del pensiero e del cuore. Che appartiene a coloro che tremano dinanzi all’Altissimu, che ne sentono la dismisura, ne avvertono la potenza e la radicale diversità da ogni umano calcolo e umano pensiero. 

La grande umiltà è diversa dalla umiltà piccola, spesso confinante con la piccineria o l’appiattimento. Nell’invito finale, quasi una «cauda» (coda, ndr), una sententia, come si usa in tanti componimenti poetici, la successione delle azioni raccomandate è significativa. Prima la lode, poi il bene-dire, poi la gratitudine, poi il servizio, tutte azioni da svolgere con grande umiltà. Ma prima di tutto viene la lode, il canto di gioia, la letizia e la benedizione, viene il cuore esultante, prima il dire bene, prima viene la contentezza di essere in rapporto con Lui, e poi ringraziare e servire... Perché una umiltà senza la lode, senza la gioia, prima, diviene paradossalmente egocentrismo, diviene performance di virtù propria e senza tremore, diviene applicazione della propria idea di umiltà, che spesso finisce per farci assomigliare a quelli che Gianni Brera, noto scrittore di sport, definiva cattolici dal «collo torto», cioè con una mezza piega, obliqui nel dire e nel fare, per apparente umiltà e sotterraneo livore o interesse.

In san Francesco vi è lo slancio e il precipizio, lo schianto del cuore dinanzi alla potenza dell’Altissimo e il buttarsi faccia a terra (in quella terra che è anche il quotidiano, il feriale delle piccole cose noiose e ripetitive, in quel che Rimbaud chiamava la «rugosa realtà»). Tra il primo termine e l’ultimo del Cantico corre la tensione che permette l’abbraccio alla totalità del vivente. Senza questa tensione, senza questo spasmo di lode e di senso della sproporzione non si sprigionerebbe l’energia di quell’abbraccio, di quello sguardo capace di valorizzare le realtà naturali, cioè nascenti, e nascenti dalla mano dell’Onnipotente. 

San Francesco non è un «uomo panico» è un uomo religioso, cioè che avverte nell’anima e nel sangue il legame con tutte le cose in quanto creature come lui. In quanto provenienti da un soffio dell’Altissimu, e come quel soffio potenti di vita e passeggere, nobili e fragili. Il servizio cum grande humilitate è il modo più vivo di partecipare a quel soffio, è il modo più imperioso per proseguirlo. Nella sua umiltà, san Francesco compie il suo desiderio di esser principe, il suo acceso carattere, la sua coraggiosa sfida agli ingannevoli padroni del mondo, siano essi fantasmi tristi della storia o della nostra mente. Per questo la grande humilitate nutrita dallo schianto incantato dinanzi all’Altissimu, è il segno della grande forza di san Francesco, quel «Tu» sgomento e innamorato a cui ha rivolto la vita.

Stupore

Chiamalo amore
questo giorno nuovo.
Ad ogni passo
ho terra sotto i piedi.
Aria alla vita
e mani per fare.
Ore sgranate
dai miei occhi stupiti.

Marilisa Andretta
Nel mormorio del giorno
Apogeo editore, 2023

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Data di aggiornamento: 09 Dicembre 2024
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