Leonardo Vitale, il primo pentito di mafia
È il 29 marzo del 1973 quando un giovane di 32 anni si presenta alla Questura di Palermo e chiede di parlare con il commissario Bruno Contrada. Il giovane è Leonardo Vitale, appartenente alla cosca di Altarello di Baida. Parla per ore, è un fiume in piena: si autoaccusa di due omicidi, ma soprattutto – nello sconcerto del commissario –, rivela l’organigramma di Cosa Nostra e gravi fatti criminali, fa nomi e cognomi, tra cui quelli di Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Vito Ciancimino. Svela per la prima volta l’esistenza della cosiddetta «Commissione» e i riti di iniziazione. Contrada, riflettendo su quell’episodio, parla di un uomo in preda a una crisi mistica, che aveva perso ogni traccia di «mafiosità». Un uomo che fa mettere a verbale di aver «voluto rendere tale spontanea dichiarazione per liberare la mia coscienza».
L’Italia, tuttavia, non è ancora pronta a concepire il fenomeno del pentitismo. Un uomo d’onore che «canta» non solo è inaudito, è impensabile. Per questo i mafiosi hanno buon gioco a far passare Leonardo, comunque fragile e sconvolto dalla sua scelta, per pazzo, tanto da rendere la sua testimonianza irrilevante dal punto di vista della lotta alla mafia. Al contrario, inizia per lui una via crucis nelle carceri e nei manicomi criminali in Sicilia e nel continente, in cui le uniche luci a cui aggrapparsi saranno la fede e la sua famiglia, ovvero la madre Rosalia e la sorella Maria.
Una scelta, la sua, che in realtà ha radici lontane. Leonardo nasce in una famiglia molto religiosa, è un bambino sereno, bravo a scuola, di animo generoso. Tutto cambia quando a 12 anni perde il padre, e si affida alla guida dello zio Giambattista, detto «Titta», che lo inizia alla carriera criminale. Gli fa uccidere prima un cavallo e qualche tempo dopo un uomo, Vincenzo Mannino, appartenente a una cosca rivale. Il dado è tratto, ma la sua anima resta divisa, lacerata, inquieta. Diventa introverso e non va più in chiesa. «Io sono stato preso in giro dalla vita – scriverà in una delle sue lettere –, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi… La mia colpa è… di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose… bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato e io ho obbedito».
L’obiettivo di Leonardo non è mai stato quello di chiedere sconti di pena, ma di avere una possibilità di salvezza in un destino segnato. Né lo muoveva un qualche intento di vendetta, anzi, avrebbe voluto salvare anche gli altri mafiosi: «Uniamoci e combattiamo il male che tiene prigionieri… centinaia di migliaia di nostri fratelli… questo è il dovere dello Stato verso questi cittadini che vivono nelle tenebre, che non sanno la verità, perché sono stati allevati nel male». Per sé aveva scelto: «Ormai io la mia battaglia l’ho vinta – scriveva alla madre –. Non mi staccherò mai più da Gesù… La fede in Cristo mi ha ridato la vita, la gioia quella vera».
Uno sgarro che la mafia non gli perdonerà mai, tanto da colpirlo mentre ritornava a casa dalla Messa, il 2 dicembre del 1984, quasi dieci anni dopo la confessione. Aveva da poco avuto la grande gioia di sapere che sarebbe potuto entrare nell’Ordine Francescano Secolare. Al suo funerale c’erano solo sei persone e la sua vicenda rimase a lungo nel silenzio, a differenza di quanto avvenne per gli altri pentiti di mafia.
È il giudice Giovanni Falcone a restituire valore e dignità al sacrificio di Leonardo: «Con le sue dichiarazioni – scrive – ci ha offerto due importanti conferme: l’esattezza delle informazioni che avrebbero fornito Buscetta, Contorno e Marino Mannoia (collaboratori di giustizia) e l’assoluta inerzia dello Stato nei confronti di coloro che dall’interno di Cosa Nostra decidono di parlare». E aggiunge: «È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi… il credito che meritava e che merita». A quarant’anni dalla morte, a dispetto di tutto, Leonardo è ancora tra noi e ci chiede di aiutarlo a stare accanto ai giovani palermitani.
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