18 Giugno 2025

L’eredità di Francesco

Papa Bergoglio ha ridato slancio e vitalità alla comunità ecclesiale, ha insistito sul primato della pace, difeso i poveri e gli oppressi. È stato il pastore della Chiesa universale, e l’amico fidato che ti cammina accanto.
L’eredità di Francesco

© Franco Origlia / Getty Images

Del pontificato di papa Francesco, due azioni su tutte rimarranno impresse nella memoria collettiva: il suo strenuo impegno a difesa degli ultimi e dei più fragili, e il suo instancabile appello alla pace e alla tolleranza. C’è chi sostiene che quando Bergoglio ha denunciato la Terza guerra mondiale in atto, seppure combattuta a piccoli pezzi, in fondo ha fatto il suo «mestiere» di Papa. Ma Francesco non è stato solo il pastore della Chiesa universale. Ha saputo ritagliarsi il ruolo di uno statista con una visione del mondo e una prospettiva sulla Storia. Qualità che difettano, o sono pressoché introvabili, in gran parte dei cosiddetti statisti di professione che vivono in questa nostra epoca così travagliata, spesso incapaci di immaginare un mondo «altro» rispetto a quello che sembra procedere per inerzia nell’indifferenza e nella violenza, e orientati ad agire a uso e consumo della pancia del proprio elettorato.

Bergoglio ha chiamato la Chiesa, per prima, a rinnovarsi, come conferma Daniele Menozzi, professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana-Treccani e socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei. Fa parte della direzione di «Modernism» e del Comitato direttivo della «Rivista di storia del cristianesimo». Per Morcelliana ha pubblicato di recente i saggi Il papato di Francesco in prospettiva storica, e Lezioni di storia della Chiesa. Menozzi ritiene che «Bergoglio si è trovato di fronte a una Chiesa in difficoltà nel suo rapporto con il mondo moderno, e ha avviato delle trasformazioni interne che riguardavano le sue istituzioni, ma anche la mentalità, l’approccio e gli atteggiamenti. Papa Francesco ha ritenuto che la Chiesa dovesse recuperare la sua dimensione missionaria verso tutto il mondo. Di qui la sua visione geopolitica planetaria. E per farlo non poteva non prendere in considerazione le concrete posizioni politiche in cui, nei diversi contesti, la Chiesa si trova a operare. Ha posto l’annuncio del Vangelo della misericordia come criterio ispiratore della presenza della Chiesa».

Bergoglio ha offerto anche una riflessione costante sulle modalità con cui rispondere alla violenza bellica utilizzata in violazione del diritto per promuovere ingiuste relazioni tra i popoli. «Il Papa sapeva benissimo che esistono pulsioni imperiali da parte di alcuni Paesi – prosegue Menozzi –, ma fin dall’inizio del suo pontificato si è posto l’interrogativo se al male dell’ingiustizia, promossa attraverso la violenza della guerra, si debba rispondere con il male delle armi. E ha indicato che esistono altri modi attraverso i quali si può resistere alle ingiustizie, come la nonviolenza attiva, che non significa rassegnarsi passivamente a un’ingiusta aggressione, ma organizzarsi in modo da poter rispondere al male senza ricorrere alle armi, attraverso una mobilitazione collettiva di massa. Ha così ricordato ai credenti che, per il Vangelo, si deve respingere l’ingiustizia senza ricorrere alla violenza». Francesco si è poi adeguato ai mutamenti prodotti dalla Storia, e davanti all’invasione dell’Ucraina, «ha riconosciuto la liceità del ricorso alle armi per legittima difesa, ma ha aggiunto che occorre riflettere e approfondire ulteriormente la questione della legittima difesa. Francesco non ha indicato la rassegnazione al male, ma le modalità evangeliche di resistenza al male come un obiettivo che va perseguito anche quando le circostanze storiche richiedono, momentaneamente, il ritorno alla dottrina della guerra giusta».

Pace e legittima difesa

Come si concilia la riflessione di papa Francesco sulla pace con la corsa al riarmo delle democrazie occidentali? «Viviamo in un’epoca in cui si stanno riaffermando visioni aggressive fatte di sfere di influenza, di ri-legittimazione dell’uso della forza per la violazione dei confini altrui o per l’edificazione di Stati basati solo sul principio della potenza. E noi sappiamo dove ci ha già portato tutto questo in passato», sostiene il politologo Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di Relazioni Internazionali alla facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo: Madre patria. Un’idea per una nazione di orfani (Bompiani); Il posto della guerra - E il costo della libertà (Bompiani); Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale (Il Mulino). «La necessità di un riarmo europeo si muove in questa dimensione, ma non perde di vista l’orizzonte che ha consentito all’Europa di formarsi – continua Parsi –. L’orizzonte dell’affermazione del diritto sulla forza, e della pace sulla guerra. Oggi reagiamo a una condizione di guerra cercando di mettere in sicurezza quei principi e quelle istituzioni dell’Europa che altrimenti potrebbero essere travolti o negati, ma senza venire meno a quei principi e a quelle istituzioni. Sull’Ucraina il Papa rivendicava il diritto dell’aggredito di difendersi dall’aggressore». 

Quello di Gaza è un altro fronte caldo per il quale Francesco si è speso fino all’ultimo giorno della sua vita, censurando la violenza della guerra. E i suoi ripetuti interventi hanno intiepidito i rapporti tra la Santa Sede e lo Stato di Israele. «Penso che sia stato doloroso per il Pontefice constatare gli attacchi che subiva da parte di Israele e della sua leadership, ma anche da una parte del mondo ebraico, come se lui potesse essere classificato alla stregua di un nemico di Israele – commenta Parsi –. Papa Francesco ha denunciato quello che è accaduto a Gaza poiché pochi altri lo stavano facendo con altrettanta fermezza. E ancora oggi stiamo continuando a vedere, e alcuni a non voler vedere, quello che sta succedendo». Gaza ha scavato una serie di fossati sanguinosi, «come quello tra israeliani di fede ebraica e arabi di fede cristiana o musulmana. È un vallo fatto di sangue, una de-umanizzazione della componente araba degli abitanti della Palestina. Ed è scioccante e vergognoso che venga perseguita dal governo di Israele. Va anche detto che una buona metà dei suoi cittadini non si riconosce in quello che fa il premier Benjamin Netanyahu e il suo governo. In Europa, e in Italia in particolare, oltre che negli Stati Uniti, c’è una grande difficoltà a essere obiettivi su quello che sta accadendo». 

Un’altra questione delicata è quella dei rapporti con la Cina. Papa Francesco ha appoggiato l’accordo tra il Vaticano e Pechino per normalizzare la condizione dei cattolici. Questa scelta non è stata immune da critiche, in particolare da parte di chi ha paventato un ruolo di subalternità al governo di Pechino. «Non è la prima volta che la Chiesa è costretta a fare concessioni in ordine alla nomina dei vescovi pur di mantenere aperto un dialogo che offre spiragli attraverso i quali è possibile incrementare l’azione pastorale – ammette Menozzi –. Anche papa Francesco ha ritenuto che questa fosse la via migliore per poter comunicare il messaggio evangelico nella Cina contemporanea. Le verità di fede si affermano con la loro stessa forza. Se si permette alla verità di presentarsi, la forza della verità si impone. E questo è stato uno degli elementi centrali dell’azione pastorale di Bergoglio».

La Teologia degli ultimi

Uno degli aspetti fondanti dell’universalismo del Vangelo è l’attenzione ai poveri, ai malati, ai migranti, a coloro che sono in carcere, agli emarginati. Papa Francesco non ha mai smesso di perorare la causa degli ultimi. «Credo che questa sua sensibilità sia nata in seno alla Chiesa latino-americana e dal modo in cui essa è uscita dal Concilio Vaticano II – osserva Menozzi –. I vescovi latino-americani hanno insistito più degli altri sul fatto che la Chiesa, per ritrovare credibilità, capacità pastorale e spinta apostolica, dovesse recepire le istanze che venivano dagli ultimi, dalle masse diseredate, da quello che allora si chiamava il “Sud del mondo”. Un orientamento che si è concretizzato in due vie diverse: quella prevalentemente brasiliana e di altri Paesi, denominata “Teologia della liberazione”. E quella argentina della “Teologia del popolo”. Bergoglio ha recepito l’istanza della “Teologia del popolo”, piuttosto che quella della “Teologia della liberazione”. Quest’ultima assumeva come categorie di analisi gli strumenti della cultura marxista, cioè di una divisione della società in classi e della necessità della lotta di classe. In sostanza riteneva che le ingiustizie, la povertà e la fame nel “Sud del mondo” potessero risolversi se la dottrina sociale cristiana abbandonava il suo tradizionale interclassismo.

La “Teologia del popolo”, invece, ha considerato il fatto che la capacità di mobilitazione politica del popolo era in grado di giungere alla definizione di un progetto condiviso di emancipazione e di giustizia sociale. Queste due vie teologiche sono accomunate dallo stesso obiettivo: risolvere i problemi della povertà, della fame, dell’ingiusta distribuzione della ricchezza a livello internazionale. Secondo la “Teologia del popolo” è il popolo che ha la capacità di elaborare un programma che, attraverso gli strumenti della democrazia, come il voto, può condizionare anche i massimi poteri politici per arrivare alla soluzione del problema dell’iniqua distribuzione dei beni». Ma va ricordato anche un aspetto ecclesiologico. «Dopo il Concilio Vaticano II – puntualizza Menozzi –, quella per i poveri era un’opzione preferenziale, con una Chiesa che optava per i poveri, ma si manteneva distinta da essi. Papa Francesco ha proposto una linea con un accento diverso: una Chiesa povera e per i poveri, e non solo una Chiesa con un’opzione preferenziale per i poveri; una Chiesa che si fa povera e che aiuta i poveri a mobilitarsi come popolo organizzato in grado di valersi degli strumenti politici per riuscire a risolvere i problemi che determinano profonde differenziazioni economiche e sociali». 

La declinazione di una Chiesa per i poveri e per gli ultimi è anche la ragione per la quale papa Francesco ha spostato il baricentro della Chiesa, in particolare attraverso la nomina di nuovi cardinali, dalla tradizionale area euro-americana, all’Asia e all’Africa. «In Europa il cattolicesimo è quantitativamente in declino – sottolinea Menozzi –, e questa è una delle ragioni per le quali le nomine si sono orientate verso le Chiese più attive. Elevare al rango di cardinali coloro che si trovano a svolgere l’azione pastorale a diretto contatto con le periferie del mondo, aumenta la sensibilità della Chiesa verso la dimensione planetaria della sua presenza. Inoltre per papa Francesco la Chiesa non doveva consolidare le proprie posizioni, ma ritrovare le capacità di una missionarietà universale. E dunque abbiamo cardinali di piccole Chiese, ma che hanno la necessità di declinare l’universalità del messaggio evangelico all’interno dei loro specifici contesti culturali, e si trovano così al centro della comprensione dei problemi della pastorale al di fuori dei centri tradizionali del cattolicesimo. Poi c’è anche una ragione teologica. Papa Francesco pensava che la forma che il cattolicesimo aveva raggiunto nel suo incontro con la cultura ellenistico-romana non fosse superiore ad altre forme di incontro tra Vangelo e altre culture. Nella sua visione, questa modalità di espressione della fede cristiana costituisce una delle tante e possibili vie con cui il cristianesimo ha raggiunto l’umanità. Anche in altre culture il Vangelo può essere espresso, e con altrettanta efficacia, nella rappresentazione della sua verità. Bergoglio ha mostrato che il cristianesimo si può inculturare in tutti i contesti di civiltà sparsi sulla faccia della Terra, senza perdere nulla della verità del Vangelo».

Essere umani senza riserve

Papa Francesco ha sempre invocato la propensione a «essere umani» con gli altri esseri umani. «È l’attuazione concreta di questo principio che diventa una questione politica, come nel fenomeno delle migrazioni che deve essere regolato – osserva Vittorio Emanuele Parsi –. Ci sono forze politiche che rifiutano il principio di umanità. Ma una volta che siamo all’interno dell’accettazione di questo principio, poi ci dividiamo sulle modalità concrete con cui lo attuiamo, e affrontiamo un tema che ha una grande caratteristica: è poco sensibile all’organizzazione del mondo per Stati, e anche per organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea. La territorialità è sfidata dalle questioni migratorie, così come è sfidata dai cambiamenti climatici, dall’esaurimento delle risorse, dal rischio di estinzione di alcune specie animali. È il cosa fare che si dimostra sensibile alla divisione del mondo in Stati. Del resto, senza Stati non ci sono democrazie. Dunque la capacità di attrarre il consenso dei cittadini è fondamentale, tanto quanto ascoltare le loro preoccupazioni. Le leadership dei vari Stati si contraddistinguono per il fatto di incanalare queste preoccupazioni in politiche che siano realizzabili e orientate a principi accettabili, e che questi non siano contraddittori con quelli che valgono all’interno della comunità politica. Questa è la difficoltà della politica. Papa Francesco ha sottolineato il rischio di una disumanizzazione – conclude Parsi –, ma non ha fornito soluzioni. Queste toccano alla politica».

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 20 Giugno 2025
Lascia un commento che verrà pubblicato