L’infinito viaggio in cerca di Antonio
Rileggo i suoi nomi nelle diverse lingue, nelle differenti geografie. E spero di non sbagliare troppo grafie e accenti. In realtà ascolto ancora il suono di queste parole come se fosse la prima volta. «Sent Antuan Kilisesi», nella strada principale della Istanbul, crocevia tra l’Europa e l’Asia. «Shēn Ndou» sussurrato tra le pietre e le brughiere del monte che sovrasta la cittadina di Laç, nel cuore dell’Albania. Più semplice seguire il racconto di frère Danik al santuario di Brive, nel sud-ovest della Francia, una facile traduzione: «saint Antoine», una devozione che mi sorprese in questo paese così laico dove la leggenda sacra del Santo è quasi sconosciuta. E ricordo bene la commozione leggera mentre, a Elmina, in Ghana, ascoltavo le preghiere a «Nanà Ntona», venerazione profonda ad Antonio in questo Paese africano.
Quasi dieci anni fa ho cominciato un lungo viaggio nella devozione a sant’Antonio nel mondo. Un andare da giornalista laico, sorpreso, incuriosito. L’inizio di questo infinito racconto mi torna in mente ogni volta che si avvicina il 13 di giugno, il giorno del Santo, il giorno della sua morte, avvenuta a Padova nel 1231. Ricordo benissimo una conversazione ascoltata, casualmente, tra due frati durante un pranzo in refettorio. Si raccontavano della grande chiesa dedicata al Santo in Istiklâl Caddesi, la via dell’Indipendenza, la strada principale della Istanbul europea. Ero già stupito, allora non sapevo che il consumo delle candele in quella chiesa, nascosta da una grande muro e quindi invisibile agli occhi delle migliaia di passanti, fosse pari a quello della Basilica padovana. I due frati parlavano delle code di fedeli, in gran parte donne, che venivano a pregare Antonio al martedì, suo giorno sacro. Non ne erano sorpresi, come se per loro fosse una abitudine consueta. Ero io a essere sconcertato: questo avveniva in un Paese musulmano, dove la presenza cristiana e cattolica è ben più che ridotta, poco più di centomila fedeli su una popolazione ben oltre gli ottanta milioni di abitanti. Dovevo andare a vedere, dovevo scriverne.
A Istanbul conobbi i frati che là vivevano, li ascoltai, vidi queste donne musulmane portare in chiesa pane, fiori, olio. Le vidi scrivere le loro «preoccupazioni» in un quaderno ai piedi del Santo, lessi delle loro speranze in una grazia, in un aiuto. Per loro, per i figli, per le persone care. Le vidi «pregare» per ottenere una guarigione, un lavoro, una pace. Chiedevano salute, serenità, un po’ di benessere. Ricordo benisssimo Şebnem, donna musulmana. Mi disse: «Dio è uno solo. Io sono musulmana, ma ogni martedì cerco di passare da qui. Per Aziz Antuan, per il Santo». La vidi accendere una candela. Smisi di chiedere le ragioni di questo gesto. Mi hanno sempre risposto: «Antonio ci ascolta».
Da allora, da quel viaggio, non mi sono più fermato: ho visitato i luoghi a me più sconosciuti di Antonio in Italia (Messina, Gemona, Rieti e quanti altri ce ne sono), in Europa, in Africa, in Medio Oriente. A Beirut un frate a un passo dai 100 anni, fra Massimiliano Chilin, mi raccontò delle cinquantadue chiese dedicate a sant’Antonio di Padova, a mar Mtannous Badawi, nel Libano, una terra stretta, inquieta, fragile, grande appena come l’Abruzzo. Il mio stupore continuava (e continua) a essere vivo, sempre più forte.
Nei tredici martedì che precedono il 13 di giugno sono decine di migliaia di fedeli a salire la brughiera aspra del monte di Laç in Albania. Nella notte del 12 di giugno, oltre centomila persone si accampano attorno al monastero di sant’Antonio, ricostruito dopo le distruzioni degli anni del comunismo albanese di Enver Hoxha. In gran parte sono musulmani. Si accendono candele, si cerca la benedizione per i propri cari portando con sé al santuario sciarpe o scialli che loro indossano. Si mostrano al Santo le loro immagini. La devozione ad Antonio è fisica, profonda. Ancora una donna, Hana, mi disse: «A Lui raccontiamo quanto non diremmo a nessun altro».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!