«Mai giudicare la persona»
Per il male compiuto e il danno subito ci dev’essere la giusta pena e il doveroso risarcimento per la riparazione dell’offesa. Ma non basta: per il colpevole occorre lavorare sulla presa di coscienza della propria responsabilità come punto di partenza per un’effettiva conversione. Che comprenda, sempre se possibile nel caso concreto – col giusto approccio, nei tempi che servono e con modalità adeguate –, anche un cammino di riconciliazione con la vittima e i suoi familiari: perché solo così sarà possibile una vera rieducazione e la ripartenza della persona. Si chiama «giustizia riparativa» ed è l’ambito in cui è impegnato don Antonio Biancotto, sacerdote del Patriarcato di Venezia, che da quasi 30 anni è cappellano della casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore a Venezia e da un paio di anni anche dell’istituto di reclusione femminile della Giudecca, dove il 28 aprile arriverà in visita papa Francesco.
Msa. Com’è nata la sua esperienza di prete in carcere?
Biancotto. Quando fui nominato parroco a San Nicolò dei Mendicoli e all’Angelo Raffaele a Venezia, i superiori mi chiesero di occuparmi dell’assistenza spirituale a Santa Maria Maggiore che si trova lì vicino. Fu una richiesta che mi spiazzò. Mi formai alla scuola di don Gastone Barecchia, un sacerdote fortemente carismatico, alpino, reduce dalla ritirata del Don in Russia, un uomo capace di entrare in dialogo anche con i detenuti, diciamo, meno inclini al pentimento e più pericolosi. Negli anni a seguire mi capitò di sentire una propensione alle missioni. Così, d’accordo con l’allora patriarca, il cardinale Angelo Scola, feci un periodo di verifica nella missione diocesana di Ol Moran, ma lì capii qual era la mia strada e così sono ritornato.
Come vive questa parte del suo ministero?
In questo periodo in cui sono convalescente dopo una malattia, mi reco in carcere tre volte a settimana, visito in alternanza le sezioni, entro nelle celle, sono a disposizione di chi vuole incontrarmi e parlare, informalmente o in confessione. In precedenza mi recavo in carcere praticamente ogni giorno. Al maschile, dove sono impegnato da diversi anni, ci sono detenuti in attesa di giudizio o in custodia cautelare o con piccole pene detentive. Al femminile, alla Giudecca, dove sono arrivato più di recente, ci sono anche condannate a pene che superano i 10 anni di reclusione. Poi conosco bene gli agenti della Polizia penitenziaria, con molti siamo diventati amici: ho celebrato per loro matrimoni, sacramenti, funerali. Con tutti c’è un buon rapporto. Negli anni ho ricevuto l’incarico di coordinatore dei cappellani delle carceri del Triveneto. È una parte della mia vita che per certi versi ha sorpreso anche me.
Che rapporto c’è tra la pena umana e il giudizio di Dio?
L’uomo può giudicare il fatto, solo Dio giudica la persona. La giustizia di Dio è la sua misericordia, quell’abbraccio di Padre che spalanca alla redenzione e permette un cammino di liberazione dal male. Di fronte a un reato è doveroso, nella società civile, che il colpevole sia perseguito e punito, con l’auspicio che la giustizia sia davvero uguale per tutti. Ma Dio solo scruta e sa davvero che cosa c’è nel cuore dell’uomo. La Costituzione sancisce il principio della rieducazione della pena, ma spesso non è così. Il carcere dovrebbe essere una comunità di recupero. A Venezia per fortuna ci sono le cooperative «Rio Terà dei pensieri» e «Il Cerchio», che danno lavoro ai detenuti e li aiutano molto anche una volta fuori.
In tutta Italia c’è il problema delle condizioni di detenzione non dignitose.
Il sovraffollamento carcerario è la criticità maggiore. Al maschile, che ha 231 detenuti, ci sono anche tre persone in 9 metri quadrati. Fino a qualche anno fa il bagno era una turca nell’angolo della cella. Al femminile, con un’ottantina di detenute, va meglio. Uno dei problemi più gravi è la salute mentale, su cui si dovrebbe fare molto di più. Tanti detenuti sono malati psichiatrici di difficilissima gestione. Il rischio è di cadere in giudizi sommari. Chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari è stata una scelta giusta, ma ancora non ci sono le residenze alternative. È un po’ quello che è successo con i manicomi a seguito della riforma Basaglia: sacrosanto chiuderli, ma poi non è seguita la realizzazione delle strutture territoriali previste.
Poi c’è la piaga dei suicidi, che è in aumento.
Purtroppo. Quando una persona in carcere si toglie la vita, è sempre una sconfitta per tutti. Molte volte mi capita d’intercettare dei propositi suicidari durante i miei colloqui. Chiaramente, se siamo in confessione devo mantenere il segreto. Se invece è un dialogo più informale, mi attivo subito per avvisare chi di dovere. Sull’atto di porre fine alla propria esistenza grava certamente il peso, spesso un macigno, del capire che cosa si è commesso compiendo il reato per cui si è finiti in carcere. Più di qualcuno vede in questo esito la liberazione e l’espiazione della sua colpa, ma dobbiamo fare di tutto perché questo non accada. Perché non può essere questa la soluzione per la persona detenuta, per i suoi cari e per la società. I dati che vediamo sono allarmanti.
Che cosa pensa dell’ergastolo e delle pene alternative?
Il «fine pena mai» è sbagliato. È contrario al principio della rieducazione, del riscatto, della ripartenza. È evidente che questo non significa che in casi di comprovata pericolosità sociale non vadano applicate le necessarie misure di sicurezza. Quanto alle pene alternative, sono d’accordo e penso anche che dovrebbero essere potenziate sempre di più proprio in un’ottica di recupero. Per parte mia, ho potuto constatare i buoni risultati dei lavori socialmente utili. Noi stessi ospitiamo in parrocchia persone che si occupano di custodire le chiese negli orari di apertura e di interventi di giardinaggio. Una persona vive temporaneamente in un nostro alloggio e segue uno specifico programma di recupero.
Ci sono aneddoti che ricorda in modo particolare?
Una miriade. Una volta entrai in contatto con un recluso che era stato ritenuto, erroneamente, responsabile di un traffico di droga. Per lui fu durissimo restare in cella da innocente. Per fortuna la giustizia lo riconobbe tale: a distanza di tempo venne a fare una preghiera dei fedeli durante la Messa di commiato dalla diocesi dell’allora patriarca, cardinale Marco Cé. Un’altra volta, invece, al femminile, facemmo una Via Crucis, prima della celebrazione con il bacio della croce, molto sentita e partecipata: qualche detenuta si commosse, altre erano come incantate dinanzi al volto del Crocifisso. Anni fa, al carcere maschile, durante la Messa di suffragio di un detenuto che si era tolto la vita, fui io invece a commuovermi, avevo proprio un groppo in gola che si sciolse a un certo punto nel pianto. Allora un detenuto mi venne incontro dicendomi: «Tante volte tu ci hai consolato, lascia che stavolta siamo noi a farlo con te».
Che insegnamento di vita ha ricevuto in questi anni?
Da sacerdote dico che bisogna sospendere i giudizi morali sommari e cercare sempre di capire che cosa possa esserci dentro il cuore di un recluso. La persona non può essere solo il suo reato. C’è molto di più. Spesso è qualcosa di imperscrutabile, di non comprensibile, ma c’è. E ogni situazione fa storia a sé. Ci sono esperienze, problemi, fatiche che devono essere considerati per cercare d’interpretare che cosa sia accaduto. Io ho imparato che molte volte all’origine di un reato c’è una carenza d’amore, una difficoltà affettiva che in un certo senso degenera. Da prete sono convinto che anche di fronte al male peggiore ci possa essere una possibilità di conversione e ripartenza, ma lo si può fare solo affidandosi a Dio.
Lei è un convinto sostenitore della giustizia riparativa: ci spiega che cos’è esattamente?
È un percorso di rielaborazione di quant’è accaduto che mette in relazione il colpevole e la vittima e i suoi familiari e che nulla toglie al decorso della giustizia umana. In tale percorso il colpevole è chiamato a prendere pienamente coscienza del male arrecato; la vittima o i suoi famigliari, a cui pure è dovuto il doveroso risarcimento, possono invece percorrere un cammino che li aiuti a superare l’odio. L’insegnamento arriva, per esempio, dal caso Moro: un delitto efferato, tragico per la storia del nostro Paese, dove le responsabilità sono state gravissime. Eppure la famiglia dello statista non si è fatta sopraffare dal rancore, non ha chiesto vendetta, ma giustizia: il conto va pagato, ma bisogna anche saper andare oltre il fatto.
Domenica 28 aprile arriva a Venezia papa Francesco: qual è la sua aspettativa?
L’annuncio della visita del Santo Padre ha generato gioia e trepidazione. Sono molto contento di questa attenzione. Qualche giorno prima che si sapesse, stavo guidando una meditazione con le detenute e una di loro è intervenuta dicendo: «È un po’ che il Papa non parla di noi». E io le ho risposto: «Mai dire mai, Francesco ci sa sempre sorprendere, magari qualcosa succede». A stretto giro, è arrivata la notizia. Penso che il successore di Pietro saprà confermarci nella fede con quello sguardo sulla fragilità umana e sulle «periferie esistenziali», come lui le chiama, che ci aiuterà a interrogare ciascuno di noi sul rapporto con il peccato e la misericordia di Dio.
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