Memorie pro, memorie contro
La memoria unisce o divide? È la base su cui poggiano l’identità e i valori collettivi di una nazione o è il terreno di scontro tra chi legge gli stessi fatti in modo divergente? Questa domanda, che fino a pochi anni fa non ci saremmo neppure posti, si è affermata con sempre maggior forza nel corso del tempo, man mano che ricorrenze ed episodi storici considerati patrimonio comune, come per esempio l’unità d’Italia, la Resistenza, l’Olocausto, venivano letti diversamente, a tratti contestati, in alcuni casi ridimensionati. Gli esempi sono tanti: l’unità d’Italia è vista dai movimenti meridionalisti come una conquista del Nord a scapito del Sud, mentre al Nord alcuni movimenti la ritengono causa del ritardo economico del Paese; la stessa Resistenza, a lungo mito incontrastato dell’Italia repubblicana, ha subito e subisce numerosi attacchi, mentre l’Olocausto su cui si basa l’identità europea viene contestato o ridimensionato. Non è neppure un caso che Liliana Segre, testimone dell’Olocausto e senatrice a vita, presiedendo la prima seduta del nuovo senato del primo governo di destra dopo la seconda guerra mondiale, abbia ricordato i valori cardine della Repubblica, la Costituzione, le date fondative, esortando i presenti al rispetto del nucleo di valori e di istituzioni comuni.
La questione è spinosa, perché da un lato il futuro di ogni singola persona ma anche di ogni Paese ha radici nella memoria personale e collettiva, mentre dall’altro le memorie divergenti, che si discostano cioè dalla memoria consolidata, sono in aumento. Perché sta succedendo? Perché proprio in questi ultimi decenni? E che cosa può accadere se le memorie si moltiplicano e ognuno si chiude nella «propria» memoria? Persino la guerra in Ucraina, al netto della propaganda, che sempre si appropria dei fatti storici quando conviene, può essere letta come frutto di memorie divergenti e incapaci di comunicare, con la Russia concentrata sul trauma dell’invasione nazista e l’Ucraina sull’Holodomor, la grande fame decisa da Stalin, che uccise milioni di ucraini. Per cercare di capirne di più abbiamo chiesto l’aiuto di due storici, ma non abbiamo avuto risposta, a riprova che si tratta di un tema che scotta e divide a sua volta. Tuttavia la memoria è un punto nodale, che merita di essere considerato, discusso, studiato, soprattutto se il fine è quello di costruire basi di pace, con noi stessi e con gli altri. A venirci incontro sono gli studi sulla memoria, una branca accademica nata negli anni ’90, che studia la memoria da un punto di vista multidisciplinare, per capire come essa intervenga a livello del singolo e della collettività.
A farci da apripista è Caterina Di Pasquale, docente dell’Università di Pisa, che si occupa di antropologia della memoria. «Riflettere su che cos’è la memoria è complicato, ma è di sicuro utile, perché la memoria è tante cose». Innanzitutto non è qualcosa di statico, ma un processo: «un meccanismo che permette a un soggetto di comprendere gli avvenimenti che vive, di elaborarli e di trasformarli in un’esperienza che può essere in qualche modo ripetibile e che si esprime attraverso il corpo. Per esempio, quando andiamo in bicicletta noi replichiamo in maniera automatica una memoria appresa, così come quando mangiamo». Molte azioni che compiamo automaticamente sono memorie che abbiamo dimenticato. «Al contrario siamo in grado di ricostruire minuziosamente un evento eccezionale, che in qualche modo ci ha portati a un cambiamento, e che ci riconduce a un ricordo più o meno felice. Per esempio, il giorno in cui abbiamo imparato ad andare in bicicletta». Tuttavia qualsiasi ricordo, anche quello più privato, ha una dimensione sociale. «Persino il ricordo della mia prima volta in bicicletta – chiarisce la professoressa – è legato a persone e contesti: a mio padre, a mio fratello, a mia madre, alle mie amiche, al quartiere in cui vivevo. Quindi quell’evento non è solo mio, è un evento che io ho appreso e ricordato nel tempo e nella mia collettività».
Un’altra faccia della memoria è la memoria narrativa: «Essa ha a che fare con il nostro percorso, con le nostre identità soggettive, collettive e, in senso più ampio, nazionali. È una memoria che si manifesta attraverso il racconto ed è profondamente inesatta, perché la memoria è un processo che continuamente elabora e non è un archivio». Ogni volta che ricordiamo un fatto privato (come andare in bicicletta, appunto) o storico, inconsapevolmente introduciamo particolari, ne cambiamo il senso, perché i significati sono inevitabilmente influenzati dal presente di chi ricorda, dal suo percorso di vita, di conoscenze, di esperienze. «Il primo problema con la memoria, quando si passa a un livello pubblico – spiega Caterina Di Pasquale –, è che si dà per scontato che essa sia una fotografia fissata una volta per tutte più che un processo».
In realtà ognuno di noi è un essere «poroso» che prende e restituisce contenuti alla memoria collettiva. «Questo processo è meno evidente per i piccoli eventi quotidiani, ma quando si fa riferimento al modo in cui ricordiamo eventi storici che viviamo in condivisione con gli altri e a cui restituiamo una grande importanza simbolica, questo processo è più evidente. Ricordare l’Olocausto, la Resistenza o i crimini nazisti a 20 o a 60 anni di distanza non è la stessa cosa, perché nel frattempo sono intervenuti alcuni elementi che hanno portato a una rielaborazione di quei fatti». E invece si dà per scontato che quelle memorie rimangano sempre fedeli a se stesse. «Oggi nessuno ricorda – esemplifica la professoressa – che nei primissimi anni del dopoguerra difficilmente in pubblico si discuteva della memoria del genocidio degli ebrei o si commemorava la resistenza come facciamo oggi. La memoria che c’era agiva soprattutto nei circuiti privati, tra le persone che avevano vissuto sulla propria pelle quei fatti».
Ricomporre le memorie
Uno dei motivi della rimozione era che il contesto pubblico non era pronto. Primo Levi l’ha espresso tante volte nei suoi libri, ricordando come all’inizio la tendenza collettiva era di rifiutare l’esistenza dei lager, per difendersi dall’orrore di quei fatti. Caterina Di Pasquale ha fatto una ricerca sui sopravvissuti alla strage di Sant’Anna di Stazzema (LU), eccidio nazista avvenuto il 12 agosto del 1944. Per decenni quella strage fu letta secondo la lente dell’epoca, e cioè come una rappresaglia dei nazisti in risposta a un’azione dei partigiani, un dramma che forse si poteva evitare. Così la vissero i sopravvissuti, che persero 363 familiari (accertati, ma in realtà furono di più), fino a quando nel 2003, per caso, vennero scoperte le carte e avviato il processo. Si ricostruirono i fatti: i nazisti avevano dichiarato quell’area zona bianca, che poteva cioè accogliere civili, e fecero quell’eccidio per un puro atto terroristico. Ma, nel frattempo, che idea potevano essersi fatti della Resistenza coloro che sopravvissero? Una verità venuta a galla solo 60 anni dopo i fatti, mentre la memoria negata, contraria alla narrazione corrente, fu tramandata sottotraccia negli altarini domestici e nei nomi di figli e nipoti: «È ciò che accade a tutte le comunità martiri. Una sorta di difesa rispetto alla paura più o meno confermata di non essere creduti, di non essere ascoltati».
L’altro problema è che moltissimi fatti non ricevono il conforto di una verità storica e giuridica, rimanendo nel limbo dell’inespresso e rilasciando memorie che potrebbero maturare in contro memorie divisive. «Nel dibattito storiografico – continua Di Pasquale – spesso si è parlato proprio di memoria divisa o di memoria conflittuale. Però è un tema che ha cominciato a entrare nell’agenda della comunità accademica molto tardi, negli anni ’90 del ’900. E non perché le divergenze della memoria non esistessero già, ma perché non venivano considerate, non si era pronti a prendersene la responsabilità». Questa «esplosione della memoria divergente» inizia all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando si comincia a ragionare in modo più ampio sulle responsabilità dei totalitarismi. È in quel momento che emergono memorie divise, che un grande archeologo, Jan Assman, ha chiamato memorie contro-rappresentative, contro egemoniche. Importante per l’Italia è l’apporto di Claudio Pavone, partigiano, storico e archivista, il quale fece un’analisi documentatissima sullo scontro tra la Resistenza e i fascisti della Repubblica sociale italiana. Tolse di mezzo gli schemi politici e si concentrò sulle motivazioni che muovevano le persone, portando alla consapevolezza che non esistono fatti mitici e puramente simbolici come la retorica e la politica vogliono, ma solo uomini e donne che agiscono nei contesti in maniera molto differente. Insomma, il bene o il male non si possono tagliare con l’accetta: «È come se si fosse creata una spaccatura tra chi ha vissuto i fatti storici assurti a mito e chi ha eletto quei fatti a simboli, ma senza averli vissuti» commenta ancora la professoressa.
Ma come si arriva alla ricomposizione della memoria, spuntando sul nascere i possibili conflitti? Nessuno ha ricette: «La memoria è una delle realtà più rischiose da affrontare, perché mette in gioco il nostro senso di appartenenza. Tuttavia, trovare il modo di uscire da un approccio ideologico e retorico, democratizzando le memorie, potrebbe essere l’orizzonte ideale da percorrere. Per esempio, la verità storica e giuridica, arrivata a Sant’Anna di Stazzema 60 anni dopo, ha permesso ai sopravvissuti e ai loro familiari di connettere la loro memoria dolorosa, particolare, con un orizzonte più ampio e più condiviso. È questo che toglie conflittualità, ricompone le memorie». L’altro passo è riconoscere che la memoria non è una fotografia, ma un processo di elaborazione costante, che, pur avendo a che fare con la collettività, parte dalla soggettività, dal nostro modo di stare nel tempo e nello spazio, dalla nostra identità. «Il grande problema – conclude Caterina Di Pasquale – è che noi in maniera automatica pensiamo che le nostre memorie siano quelle vere e giuste, mentre dovremmo cominciare a ragionare sul fatto che esse sono vere solo per noi, perché derivano da sguardi parziali. Chiudersi nelle proprie memorie è poco significativo per un piccolo fatto privato, ma diventa di grande portata se riguarda fenomeni storici complessi, importanti per la collettività». Mettere in comune le memorie, magari confrontandole con la ricerca storica libera, serve invece a collocarle in un orizzonte più ampio, ridimensionando la conflittualità. Anche a costo, all’inizio, di aspri confronti, rammentando che anche noi siamo pezzi di memoria collettiva, della cui manutenzione abbiamo responsabilità.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!