Morire solo per risorgere
«Caro direttore, leggiamo il “Messaggero di sant’Antonio” da diverso tempo. Troviamo questa rivista di grande impatto sociale e informativo, con contenuti pregnanti e aderenti alla realtà complessa e multiculturale della nostra epoca, non solo di carattere spirituale, o meramente legati alla nostra religione cattolica. […] Si ripropone il tema drammatico della sofferenza umana, specie di quella innocente, senza ragione ai nostri occhi. E come non considerare con dolore infinito i malati e i morti dell’epidemia di coronavirus, tristemente attuale? […] Non nascondo di provare sempre uno stupore angosciante per la Croce. Da uno dei miei figli, padre di due bimbe, e dalla moglie, è emersa la convinzione che Dio Padre non avrebbe dovuto permettere la sofferenza di Suo Figlio: “Quale padre non cerca di impedire che venga fatto tanto male a suo figlio?”. Loro non vogliono, per questo, che le bimbe guardino il Crocifisso. […] Ma... Quando in famiglia si argomenta, non sempre riesco a trovare i contenuti giusti, quelli più adeguati come mamma da sempre credente e fiduciosa nell’amore di Dio, creatore di tanta bellezza. Cercavo di farlo anche nella mia esperienza di insegnante. Ecco la mia richiesta di aiuto (è bello anche lo spazio della poesia sul vostro giornale)».
Lettera firmata
Direi che… siamo perfettamente in linea con la Parola di Dio! San Paolo non ha dubbi nell’evidenziarlo: «Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,22-23). Inutile girarci attorno: la croce è scandalo e stoltezza, e cioè, letteralmente, «pietra d’inciampo», occasione di caduta per gli uni, e «insipienza», cioè un cibo senza sale, un insulto al buon senso, per gli altri.
Del resto, la reticenza dei primi cristiani a rappresentare il Cristo in croce (la più antica raffigurazione canonica in tal senso dovrebbe essere una formella della porta lignea della basilica di Santa Sabina, a Roma, e siamo già alla metà del V sec.!), dovrebbe metterci sul chi va là: non era solo un problema di supposta vergogna per un supplizio che a quei tempi ancora era dato di vedere fuori da molte città (in tal senso, infatti, e cioè a ignominia dei cristiani, è il famoso graffito «blasfemo» del I-II sec. ritrovato sul colle Palatino, che rappresenta sacrilegamente Cristo crocifisso con la testa d’asino).
Forse c’è altro. Forse c’è la consapevolezza di fede che Cristo è morto e risorto, meglio ancora, «è morto, anzi è risorto» (Rm 8,34): dove i due momenti non sono solo cronologicamente giustapposti, prima è morto e dopo è risorto. In questa affermazione sta tutta la nostra fede: la croce non ha senso senza la risurrezione! Rischia di spegnersi in vittimismo e dolorismo fine a se stesso, a propria arresa consolazione.
Lo scriveva bene il poeta Rilke: «Io non mi posso raffigurare che dovesse rimanere la croce, c’era insomma soltanto un crocevia. […] Invece di proseguire oltre il crocevia, dov’era innalzato ormai un indicatore nella notte del sacrificio, la cristianità s’è accampata là sotto sostenendo di abitare ivi in Cristo, benché in esso non ci fosse alcuno spazio, neanche per sua madre, né per Maria Maddalena, come in ogni indicatore, ch’è un gesto e non un soggiorno» (Lettere a un giovane poeta). Il Venerdì santo non si può bellamente aggirare, ma allo stesso tempo serve per introdurci alla mattina di Pasqua.