Nel ritmo di Dio
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.
Di suor Marzia Ceschia
Constatato che l’essere umano non è degno di nominare l’Altissimo, in quanto ha dimenticato le parole adeguate allo stile minore, umile, povero con cui il Verbo si comunica, Francesco convoca le altre creature a innalzare la lode. Esse hanno in questo una funzione consolatrice nel senso più radicale del termine: alla solitudine dell’uomo, estraniatosi dal Creato nell’ambizione di dominarlo e asservirlo, esse prestano la loro presenza e la loro voce. Ma anche prestano la loro testimonianza corale: è un intessersi di voci quello che evoca il santo di Assisi, un cedersi il passo tra esistenze riconoscenti.
La prima creatura a comparire in scena è «messor lo frate Sole»: Francesco accosta significativamente due qualifiche, l’essere «messor», signore, e l’essere «frate», fratello. Il sole è riconosciuto nel suo ruolo privilegiato, irradiatore di luce e di vitalità, signoria di un direttore d’orchestra non di un padrone, un signore «fraterno» poiché parte dello stesso coro cui dà avvio. La luce del sole è per far venire alla luce le altre creature, ciascuna nella sua peculiarità. Dell’Altissimo porta «significatione»: alto ma non ne usurpa la somma altezza, il sole riflette la generosità di Colui che gratuitamente chiama alla vita, dicendo di ogni essere vivente la singolare bellezza. È luce e «iorno» obbediente: è il Signore che ci illumina «per lui». Messor lo frate Sole corrisponde a un mandato, è strumento, è reso vitale dall’Altissimo che è la fonte della vita, è riflesso e riverbero della vitalità che riceve. È bello nella misura in cui esalta le creature sulle quali la sua luce si posa.
All’uomo ammutolito la prima creatura evocata nel Cantico insegna che del Signore si può dire solo accogliendo di uscire da Lui, riecheggiando la sua «santa operazione», per utilizzare un’altra espressione frequente negli scritti di Francesco. È ciò che il santo di Assisi intende col «portare significazione». Le creature in questo – lo vedremo leggendo via via tutto il Cantico – danno insegnamento, ciascuna assecondando il dono che il Signore intende elargire tramite essa. Quali sollecitazioni allora ne vengono all’uomo?
Anzitutto il monito a rispettare l’Origine, ossia ad accogliere la propria creaturalità e il non essere sorgente della propria esistenza. Ogni creatura riceve la vita all’interno di un progetto deviando dal quale perde la propria fisionomia, si diminuisce. Rispettare l’Origine è rispettare a un tempo la destinazione buona di ogni essere pensato e voluto dall’Altissimo: il bene, il farne risaltare la bontà e dignità è il fine con il quale avvicinarsi a ogni vivente. Dal movimento di frate Sole l’uomo può imparare che donare è stare nel ritmo di Dio: la luce solare non ha ritorni se non l’affiorare dei colori e l’esprimersi e crescere della creazione. Donare coincide col servire alla rivelazione degli esseri, del meglio di ognuno, servire alla varietà, alla singolarità, all’originalità, alla bellezza.
Servire è, insomma, lasciar essere, con un’attitudine riconoscente, in un duplice senso: da un lato la riconoscenza nei confronti di ogni vita che a sua volta ci «dà da vivere», collabora alla nostra esistenza, dall’altro lato riconoscendo l’impronta di Dio che provvede al nostro sostentamento in ciò che ci circonda. È un atteggiamento abituale in Francesco, che guarda alle creature con gratitudine – nella consapevolezza di esserne beneficiario per la sua stessa esistenza – e in una prospettiva di gratuità, invitando ad esempio i suoi frati a non «consumarle» come ne fossero i proprietari. Racconta infatti la Compilazione di Assisi (88: FF 1623): «Al frate che andava a tagliare la legna per il fuoco raccomandava di non troncare interamente l’albero, ma di lasciarne una parte. […] Diceva al frate incaricato dell’orto di non coltivare erbaggi commestibili in tutto il terreno, ma di lasciare uno spiazzo libero di produrre erbe verdeggianti, che alla stagione propizia producessero i fratelli fiori. Anzi diceva che il frate ortolano doveva fare un bel giardinetto da qualche parte dell’orto, dove seminare e trapiantare ogni sorta di erbe odorose e di piante che producono bei fiori, affinché nel tempo della fioritura invitino tutti quelli che le guardano a lodare Dio, poiché ogni creatura dice e grida: Dio mi ha fatta per te, o uomo».
L’uomo contemporaneo, perdendo la coscienza della «significazione» ha smarrito anche i significati, tanto che l’utile appare talora come il criterio di valutazione prevalente. Francesco ancor oggi ci sollecita ad ascoltare la voce che riecheggia in ogni vivente, a fare memoria della custodia che a ogni creatura dall’uomo è dovuta (cf. Gen 2,15).
Tutto esiste per lodare
Il sole è il «grande fratello», il segno primo di Dio, perché illumina le nostre vite come il Padre. E Francesco ci insegna a lodarlo insieme con Dio, unendo così Creato, creature e Creatore.
Di Davide Rondoni
Questa è la prima delle sette volte che, in trentatré versi, sgorga il «Laudato sie, mi’ Signore...». Sette e trentatré, numeri ricchi di senso. Casuali? In arte nulla lo è, e Francesco era artista. Questa è una richiesta, o invocazione o supplica o che cosa davvero è? È una voce che sale dal fondo del dolore di quegli anni per Francesco? Quanto dolore fisico e anche spirituale viene attraversato da quelle parole accorate e anche lievi? Forse viene da gioie e dolcezze mai dimenticate della giovinezza, delle scelte radicali, delle amicizie avventurose, dalle luci nei boschi, dalle acque fresche delle rocce... O forse la voce da cui viene la lode, come dice il testo, è la voce stessa delle creature, del Creato intero che in lui trova sintesi, e trova la forza che lo anima nelle sue fibre più intime. «Laudato sii». Non dice: noi ti lodiamo, ti dobbiamo lodare... È come se la realtà tutta fosse chiamata. Francesco si rivolge a Dio – tu sia lodato... – e convoca tutto. Perché tutto esiste per lodare, ma occorre una voce che tiri fuori quella voce. E proprio mentre Francesco sta riconsegnando la vita alla materia del mondo, corpo che si disfà nel Creato, dà voce alla voce del mondo. «Laudato sii» è un imperativo? Un passivo strano, un vocativo senza soggetto preciso... La materia del mondo, impastandosi del corpo di Francesco, diviene lode, inizia la lode.
E poi viene il chiodo, il cardine. Quel «cum» che lega Creatore, il «mi’ Signore» altissimo, e creature. Quel «cum» che si oppone a ogni opposizione tra Creatore e creature, che si oppone alla distanza dispregiativa insegnata da Albigesi e Catari e altri movimenti ereticali, i quali predicavano invece una insanabile distanza tra Dio e il mondo, il primo da adorare quanto il secondo da disprezzare. In quel «cum», che lega nella lode creature al Creatore, Francesco insedia l’idea che nessun disprezzo della realtà è motivato dalla fede in Dio. Per dirla con un grande poeta francese, Charles Péguy, non è vero che si ama Dio abbassando il mondo, non lo si adora disprezzando la realtà. Erano temi molto dibattuti in un tempo di prove, fame e pestilenze. E ben presenti nella trattatistica cattolica, anche di papa Innocenzo III.
Francesco con questo «cum» fissa un cardine, introduce il senso della povertà in luogo del disprezzo. Fissa la possibilità di vivere il reale in tutti i suoi aspetti come segno (legame/cum) del Creatore. La povertà non è miseria, è andar leggeri, ovvero trattare il mondo secondo il sospiro, la consapevolezza che non è «nostro», non è nemmeno comprensibile da noi senza quel legame con/cum il Creatore. Il poeta che influenzerà tutta l’arte d’Occidente e la sua attenzione alle cose, alle creature e alle piante, ai cieli e alle acque, alle stelle e ai fiori (da Dante a Van Gogh, da Ariosto a Shakespeare, da Masaccio a Giotto su fino a Bacon e ai nostri), non dice che Dio è da lodare «nonostante» o, peggio, come intendevano i Catari «contro» le creature, ma «cum». Da quel «cum» prenderanno nuovo vigore le parole che già in san Benedetto univano contemplazione e opera nel mondo, «ora et labora». Le parole del monachesimo – pezzo di Oriente in Occidente, grazie al cristianesimo – saranno il fiore della terra detta Europa e ne motiveranno l’attitudine scientifica, artistica ed economica. Fino a ora. E grazie a quel «cum» e al segreto riverbero della Incarnazione che reca in sé, ancora oggi possiamo ammirare il riflesso rubino di un bel rosso nel bicchiere o l’incanto di un bel sorriso per strada senza sentirci allontanati da Dio, ma come suo segno, cum-partecipi di Lui, cum-segnati da Lui.
La prima creatura che è motivo/voce/coro di lode (oh, quei «per» usati da Francesco nel Cantico, quanto hanno fatto impazzire i filologi e quanto rappresentano invece una ricchezza polisemica della poesia) non può che essere il sole. Il primo, il vero «grande fratello» che tutto vede del mondo nostro, e lo suscita con la sua energia. Attraverso il sole Tu, o Dio, come gli antichi «alluminatori», creatori di figure e piccoli capolavori antichi, ci dai l’oro, ci doni la luce. Siamo le miniature di Dio, che ci allumina. E del tuo splendore invisibile «porta significazione», modo di dire antico che indicava il portar lo «stemma», porta il segno tra noi. Come tutti i grandi spiriti delle antiche civiltà, il «monaco» poeta Francesco, rivolgendosi a tutti, colti e incolti, parte da lui, dall’evidente, dal Sole, il primo fratello. Segno primo di Dio.
Io sono
Tua la voce che non ha parola
e resiste indelebile in ogni ricordo –
gli occhi del mare in quelli di lui
portati a me dal ritorno dell’onda
sono i tuoi –
E il sole che frange d’ombra la carne
al suo tramontare l’allunga e la straccia
corda tesa tra luce e buio – vibra
e il respiro diventa il tuo specchio
una preghiera –
Tua la quiete della tovaglia stesa
che danza nel vento di una periferia –
e forse in te giace questo mondo
e affonda ogni passo che dice
io sono
Martina Capezzuto in arte Exairesi