Ramadan, non ci sono datteri a Gaza
Compro datteri nel grande tendone-mercato alzato, in questi giorni, a poca distanza da Tunis Marine, il capolinea ferroviario dei binari che collegano la capitale alle cittadine della costa nord-occidentale della Tunisia. Il mercato è affollato, si fatica a farsi largo, quasi tutti uomini, si tratta, si assaggia, i venditori offrono la loro merce in cassette o in grappoli. Sono i giorni che precedono il Ramadan, il mese sacro del digiuno e della purificazione, il mese nel quale il Corano venne rivelato al Profeta e all’umanità.
Due miliardi di persone, dal Nord Africa all’Indonesia, nel nono mese del calendario lunare, digiuneranno dall’alba al tramonto. In Italia, i musulmani sono quasi due milioni e ottocentomila, poco meno del 5% della popolazione. Date mobili, quest’anno Ramadan accade tra marzo e aprile. Primavera, nel Nord del mondo. Quando nel cielo apparirà la prima scheggia di luna nuova, l’alba successiva sarà l’inizio del digiuno.
Compro datteri al mercato di Tunisi perché c’è una serissima aria di serenità. Ma anche perché sono tra i migliori del mondo. Leggo che metà dei deglet nour, «luce dell’occhio», i più buoni, sono prodotti in Tunisia. Datteri dolcissimi, dal colore lucido e dal sapore di miele. Il profeta Maometto interrompeva il digiuno con i datteri e un bicchier d’acqua. Su ogni tavola dell’iftar, la cena notturna dei giorni di Ramadan, c’è una ciotola: contiene una piccola manciata di datteri. Ricchi di zucchero, di sostanze nutritive, preziosi dopo un’intera giornata senza cibo.
Vengo via dal mercato con un sacchetto di datteri da regalare agli amici che mi ospitano. Un vecchio contadino mi insegue e me ne aggiunge altri. E insiste che ne mangi subito uno. Un regalo, un gesto di gentilezza. Come vorrei che questo Ramadan 2024, anno 1445 dall’Egira nel calendario islamico, fosse come gli altri, che, a volte, ho vissuto in paesi musulmani. Si accenderanno ancora le lanterne al Cairo? Saranno sacri e gioiosi i giorni di Algeri? Ogni volta, mi hanno ricordato il nostro Natale: la devozione e la festa, la preghiera e una leggera euforia. «Finalmente ci ritroviamo in famiglia – mi racconta, a pranzo, Amal –. Durante l’anno non c’è mai il tempo, nei giorni di Ramadan riusciamo a mangiare assieme, a parlare, ad avere accanto a noi le persone care».
Ma bisogna tenere spenta la radio, ci sono nuvole sull’orizzonte del Mediterraneo: mentre scrivo queste poche righe la possibilità di una tregua, di una pace impossibile, di una speranza, sembra irrealizzabile a Gaza. I suoi cieli sono oscurati dagli aerei da guerra e dai paracaduti disperati degli aiuti. Certamente, immagino, non ci sono datteri ai confini di Rafah, ultimo rifugio di un milione e mezzo di palestinesi, in fuga da cinque mesi di bombe e guerra. Oltre trentamila vittime palestinesi nei bombardamenti israeliani scatenati dopo l’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Una tragedia irraccontabile. Che noi, seduti davanti a uno schermo, non possiamo nemmeno immaginare. Non c’è acqua, cibo, farina, pane in questo angolo disperato di Palestina. Come sarà Ramadan? Io mi ostino a ricordare i banchetti di zucchero filato attorno alla Porta di Damasco, a Gerusalemme.
Saranno aperte le porte della Spianata delle Moschee nel cuore della città sacra a tre religioni? Il Muro Occidentale e il Santo Sepolcro a un passo. Cristiani, ebrei, musulmani pregano a fianco uno all’altro. Ma i musulmani, quest’anno, potranno pregare ad Al-Aqsa, terzo luogo santo dell’Islam? Le ultime trattative per Gaza sembrano fallite. Israele e Hamas si guardano come in un terribile specchio: Ramadan rischia di essere una miccia che nessuno sembra voler spegnere. Come potersi augurare, nella disperata tendopoli di Rafah, Ramadan Mubarak, Ramadan Benedetto? Come poter avvertire il sapore dei dolcissimi deglet nour mentre tuo figlio muore, mentre tua figlia muore?
Ci scambiamo doni con i nuovi amici di Tunisi, un Mediterraneo lontano e vicinissimo dalle spiagge di Gaza, dove si muore perché sparano mentre cerchi di afferrare un sacco di farina. Ci scambiamo doni ricacciando i pensieri, e io mi accorgo di un piccolo libro di poesia aperto sul tavolo. Lo ha tradotto la mia ospite, Bianca, sono versi di Maram al-Masri, poetessa siriana, sfuggita alla tragedia del suo Paese: «Preparerò un mondo / dove non esistono la armi / né la guerra. / Un mondo dove le madri / non fanno distinzione fra i propri figli / e i figli di un’altra donna. / Un mondo che non fa differenza / fra gli uomini / un mondo nuovo / dove non entrano né la gloria / né la sconfitta. / Un mondo / dove nessuno è senza casa / e dove nessuno muore / di freddo o di fame». Maram sa cosa sta accadendo a Gaza. Lei lo ha già vissuto.
«Io so che per milioni e milioni di uomini e donne nel mondo musulmano questo è un mese di pace».
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