Paghette, incentivi & co.
La paghetta dei ragazzi e delle ragazze è un tema controverso, e sotto vari aspetti. Spesso è un’espressione che accomuna fenomeni molto diversi tra di loro. In senso stretto, la paghetta è una somma di denaro – settimanale o mensile – che i genitori consegnano a un figlio/a che non ha un reddito proprio, perché lo usi per le sue spese ordinarie. In genere, la paghetta si riferisce a ragazzi/e adolescenti o pre-adolescenti, non a bambini e non a studenti universitari. Una seconda confusione riguarda poi l’accomunare la paghetta e l’incentivo monetario nei vari «lavoretti» dei figli. Perché dare un tot di euro alla settimana come paghetta è diverso dalla creazione di una sorta di mercato familiare dove i vari servizi domestici sono associati a un prezzo: 3 euro per sparecchiare, 4 per lavare i piatti, ecc... I due strumenti – paghetta e incentivo – possono coesistere in famiglia, ma l’uno può sussistere anche senza l’altra, e viceversa.
In questa nostra cultura dominata e ossessionata dal business, la cultura della paghetta e/o degli incentivi raccoglie sempre nuovi consensi, è il nuovo catechismo dei bambini della nuova religione capitalistica. Psicologi, esperti di dinamiche familiari, economisti, giornalisti e tuttologi inventano ogni giorno nuove ragioni per estendere l’uso della logica economica dentro casa. Perché, dicono, aumenta la responsabilità dei ragazzi, imparano a gestire il denaro, ne capiscono il valore, e iniziano in tempo a muoversi nel mercato che li attende quando saranno adulti.
Come si sarà già intuito, io sono molto contrario agli incentivi monetari con i ragazzi (per non parlare dei bambini) e sono contrario anche alla paghetta. Perché entrambi gli strumenti creano una mentalità economica fuori tempo e fuori contesto, e perché la famiglia è il luogo dove bisogna apprendere altri valori non monetari anche per gestire bene domani il denaro, il mercato e il lavoro. L’incentivo – cioè associare a ogni singolo servizio un contratto monetario – crea nei ragazzi l’idea che la motivazione o la ragione per fare un lavoro sia il denaro e non il lavoro in se stesso. Se sono pagato per rifare il letto, inizio a pensare che riassettarlo non abbia una ragione in sé ma che la ragione sia il denaro.
E così dimentico che il letto va fatto bene e basta, perché il suo essere risistemato prima di andare a scuola ha un valore in se stesso, che non ha nulla a che fare con il denaro. Cosa diversa è usare premi – che non sono incentivi –, molto meglio se non monetari (ma qui ci possono essere eccezioni). I primi non sono sistematici (non ci sono sempre), arrivano ogni tanto a rafforzare le motivazioni intrinseche, a dire «bravo», ma non sono la ragione per essere bravi. Inoltre, una volta introdotto il denaro nei rapporti familiari, è molto difficile, se non impossibile, toglierlo per ottenere gli stessi risultati; inoltre l’incentivo tende a contaminare i settori confinanti (dal letto si passa ai patti, al cane e ai compiti…).
Se non si impara a casa, e nei primi anni di vita, il valore della gratuità, cioè il valore infinito del lavoro ben fatto, da adulti saremo mossi solo dal denaro e non saremo buoni lavoratori. Ed è davvero un programma di vita troppo triste, perché mancherà la dimensione più importante del vivere: la libertà, inclusa la libertà dagli incentivi, per poter fare quelle scelte che sono giuste e buone. È la gratuità libera che fonda anche il valore del denaro, ma domani. A casa ci sono molte cose più importanti da fare e da imparare. Lasciamo gli incentivi e le paghe agli adulti, e proteggiamo i nostri piccoli dall’impero del denaro.
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