Su ali d’aquila
Cascare nella trappola. Un’espressione intrisa di minaccia. Già cascare è un trauma, ci si fa male, è un imprevisto che, quando anche ne uscissimo vivi e in salute, ci umilia. Ma la trappola, poi. Vuol dire che qualcuno che è nostro nemico l’ha apparecchiata intorno a noi, ha speso tempo e ingegno per studiarla bene, sulla nostra natura e misura, e se ci caschiamo di sicuro ne usciamo pesti. Nessuno lo vuole. E allora si vive in difesa. Se uno ci rivolge la parola, chissà che cosa vuole da noi. Se il campanello suona, non rispondo, non aspetto nessuno. Cerco un rifugio e mi ci chiudo dentro per bene. Che paura.
La parola è proprio paura, e abbiamo anche delle buone ragioni per averne. C’è una trappola moderna, orrenda e diffusa in cui sono cadute tante persone, anche con fior di lauree e bene avvertite. Arriva una telefonata, qualcuno si spaccia per carabiniere o poliziotto. Ci dice che nostra figlia o nostro figlio ha avuto un incidente, che ne è responsabile ed è in stato di fermo. Un profluvio di parole tecniche che conosciamo confusamente dalle serie televisive e dai nostri fantasmi. E chiede una cauzione, una somma, per aiutarlo a uscire dai guai. È pronto un complice fuori dalla porta, travisato, indossa una quasi divisa, un plausibile travestimento, e il gioco è fatto. Qual è il gioco? Approfittare dell’amore più universale e assoluto, quello per un figlio e una figlia. Giocare, splendido verbo di bimbi, anche questo travisato, giocare sulla nostra paura, un sottofondo che ci accompagna sempre, da genitori, anche quando tutto va bene, perché sappiamo che il male esiste.
La Bibbia è un lungo, complesso, a volte confuso come confusa è la vita, percorso di liberazione dalle paure. Il libro dei salmi conosce le trappole, eccome: «...essi tramano per farmi cadere. I superbi mi tendono lacci / e stendono funi come una rete, / pongono agguati sul mio cammino» (Sal 140,5-6). Cacciatori e prede che non hanno misura per il proprio odio: «Ogni giorno scatenano guerre» (v. 3). Anche oggi, ciascuno di noi può fare senza fatica un elenco piuttosto malinconico, o drammatico, di persone che scatenano guerre, e non solo politici o terroristi, in piccolo anche automobilisti feroci, vicini di casa intolleranti, colleghi armati di offese.
Però sempre, nei libri profetici, in quelli sapienziali, nel Vangelo, sempre viene raccontata l’esperienza di sentirsi in salvo. Di trovare un riparo che non sia la diffidenza o la rinuncia alla vita. «Tu che abiti al riparo dell’Altissimo / e dimori all’ombra dell’Onnipotente, / di’ al Signore: Mio rifugio e mia fortezza / mio Dio, in cui confido. / Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, / dalla peste che distrugge» (Sal 91,2-3). L’intero salmo assume la metafora della caccia. Ci sono frecce (noi diciamo «frecciate» per dire un’offesa che ci coglie all’improvviso), lacci (un’altra traduzione dice proprio «trappola»), cacciatori, colpi che ci devastano. Ma il salmo alterna la paura a immagini di sicurezza meravigliosa, perché abitiamo «al riparo dell’Altissimo» che ci «coprirà con le sue penne, sotto le sue ali» e «darà ordine ai suo angeli» di custodirci. E questi angeli ci «porteranno, perché non inciampi nella pietra» il nostro piede.
C’è un tempo sciagurato che ci fa credere che la nostra sicurezza e serenità dipendano dalla ferocia del «fortino» che riusciamo a costruirci: chiusi, diffidenti, in difesa e addirittura armati. Ma la nostra forza è il bene che riusciamo a condividere con chi ci circonda, è il disarmo assoluto del cuore e della mente, perché siamo amatissimi e la nostra vera difesa è questo amore che libera il mondo dalla paura.
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