Parole in gabbia
Nel suo romanzo 1984, George Orwell parla di newspeak, una neolingua progettata dallo Stato totalitario (immaginario) di Oceania per plasmare i pensieri e limitare la libertà di espressione, espungendo le parole che possono rappresentare una minaccia per il regime (libertà, rivoluzione, critica e tante altre). I pensieri ribelli diventano «psicoreati». I «buonpensanti» sono invece coloro che pensano in modo totalmente approvato dal regime, mentre le «nonpersone» sono quelle che hanno trasgredito le regole della neolingua e perciò vengono cancellate dalla memoria dello Stato e del Partito, come se non fossero mai esistite. Oggi assistiamo a un’accelerazione della diffusione del vocabolario informatico nella lingua quotidiana, che rischia di trasformarla in una «neolingua» più oppressiva che liberante.
Due esempi per riflettere. Il trionfo dei codici, che si manifesta nella moltiplicazione degli acronimi ai limiti dell’afasia (da Adhd per indicare i deficit di attenzione a Lgbtq+ per indicare la varietà di orientamenti sessuali e identità di genere che non si riconoscono nelle tradizionali forme del rapporto uomo/donna); l’uso massiccio di etichette, che ci «profilano» e creano gusci identitari rigidi e incapaci di cogliere le singolarità (boomers, migranti, bipolari, transgender, binari/non binari, ecc.). «I confini della mia lingua sono i confini del mio mondo», scriveva il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein. Cerchiamo di non renderli troppo angusti.
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