Speranza oltre il pianto

Settantatré anni portati sportivamente, la giusta dose di ironia per vivere e lavorare in un Paese difficile e di grande complessità. Alberto Cairo, fisioterapista, da 35 anni opera in Afghanistan, accanto alle persone mutilate a causa della guerra.
25 Giugno 2025 | di

Sembra quasi di vederli. Rabbrividiscono perché l’inverno afghano è molto rigido. Ma si ostinano a indossare le maniche corte per evidenziare i muscoli. E, nello sguardo, tutta la fierezza di chi fino a ieri si considerava finito, e ora sa che, anche se al proprio corpo manca un pezzo, tutto il resto è bellissimo. Sono i ragazzi di Alberto Cairo, feriti di guerra, mutilati e disabili, adesso atleti, ai quali ha ridato speranza. Piemontese, laureato in giurisprudenza, ha messo da parte i libri di diritto per dedicarsi alla fisioterapia. Partito trent’anni fa dalla sua Ceva, in provincia di Cuneo, con il sogno di un mestiere che gli permettesse di viaggiare, in Afghanistan ha trovato molto di più: i suoi pazienti sono la sua famiglia. Arrivato nel 1990, per lavorare nell’ospedale di guerra della Croce Rossa, da capo dei centri di riabilitazione, ha assistito circa 270mila persone. Settantatré anni portati sportivamente, la giusta dose di ironia che serve per vivere e lavorare in un Paese di grandi restrizioni e di grande complessità. 

«Il camice bianco – racconta – ma, soprattutto, i capelli bianchi, mi aiutano molto, mi consentono una maggiore libertà e una maggiore interazione con le donne. Se fossi un trentenne, trattare medicalmente delle donne sarebbe quasi impossibile ma, in quanto persona anziana, posso passare tra i due generi con facilità. Certo, ci sono regole da rispettare: non avere contatti fisici. Non porgere mai la mano alle donne se non lo fanno loro per prime».

Msa. Ma trent’anni fa non aveva i capelli bianchi. 

Cairo. Eh, anche se non c’erano i talebani, la situazione non era molto diversa, soprattutto nelle campagne. È proprio la tradizione afghana che distanzia l’uomo dalla donna. La famiglia non consente alla donna, e la donna stessa non lo farebbe mai, di mostrare il viso o una parte del corpo a un uomo, soprattutto a uno straniero. Ma nel campo medico c’è sempre una maggiore flessibilità. E io ho usato degli accorgimenti. Se una donna arrivava nel mio ufficio per parlare con me, io lasciavo la porta aperta. Visite mediche sempre con la presenza di una fisioterapista donna, e con il consenso del marito o di una persona di famiglia.

Come è stato il suo primo impatto quando è arrivato in Afghanistan?

A dir poco scioccante, perché non avevo mai avuto un’esperienza del genere. Ero stato in Sud Sudan, dove avevo visto persone con delle ferite, ma erano conseguenza di incidenti o di violenza domestica. Non avevo mai visto persone amputate o con ferite dovute alle mine antiuomo. Ricordo che entrai nella corsia più grande, c’erano settanta pazienti, di cui 55-60 erano ragazzi, tutti con una o entrambe le gambe amputate. Sentivo la violenza nell’aria. E percepivo un senso di ingiustizia terribile. Mi sembrava assurdo perdere le gambe per le mine. Il primo pensiero è stato: «Ce la farò?». Non tanto per la quantità di lavoro, quella non mi spaventava, era il riuscire psicologicamente a sopportare che mi preoccupava. Non lo dimenticherò mai.

Sono passati gli anni. Resta questo senso di ingiustizia?

Rimane e si è pure allargato, conoscendo altre situazioni. Negli anni ho visto arrivare decine di bambini affetti da poliomielite che non si sarebbero ammalati se solo avessero potuto assumere le tre gocce del vaccino. Ma c’era la guerra e i bambini non potevano raggiungere i punti di vaccinazione: questo è stato terribile. Nel tempo, però, ci si rinforza e si riesce a tollerare. Non ad accettare, l’ingiustizia non si accetta mai, ma in qualche maniera ci si abitua alla situazione. I primi tempi, pensando a questi ragazzi menomati, mi impietosivo. Poi ho detto basta. Al momento questi non camminano ma, tra qualche mese, con le protesi, cammineranno di nuovo. Ho cercato di vedere il positivo, e questo mi ha aiutato a lavorare meglio e a sopportare di più, e ora riesco a inculcare più speranza di prima. Bisogna saper andare oltre il pianto.

C’è una fede che conforta?

Sono stato educato in una famiglia cattolica, quindi la matrice c’è. Ma prego poco. Ho amato molto papa Francesco, ma la gerarchia mi dà un po’ fastidio, certe posizioni nei confronti delle donne e di alcune minoranze non mi piacciono. La fede, quindi, in certi casi mi è di conforto, in altri meno. Porto però nel cuore l’insegnamento di mia madre, che mi diceva che bisogna pensare agli altri.

È in Afghanistan da oltre trent’anni, accettato da qualsiasi governo. Nel 2019 ha ricevuto la cittadinanza, caso raro per uno straniero. Mai avuto difficoltà? 

Questo è il quinto regime che vedo. Qualche momento difficile c’è stato, ma nulla di particolare. Qui la disabilità non è stigmatizzata come succede in certi Paesi africani, tuttavia la persona disabile non viene considerata in grado di avere una vita normale. Noi abbiamo dimostrato il contrario. Nei centri di riabilitazione della Croce Rossa lavorano solo persone disabili, in tutti i ruoli a seconda delle capacità. Chi potrebbe contestare questo? Anzi. Sono tutti grati per il lavoro che facciamo. Chi può contestare qualcuno che fa delle protesi? Che distribuisce carrozzine? Che si occupa di riabilitazione fisica per bambini con paralisi cerebrali? Che senso avrebbe ostacolarci?

Cairo oggi vive in un quartiere popolare di Kabul, è ufficialmente in pensione, ma in realtà continua la sua attività nel campo umanitario ancora collaborando con la Croce Rossa e come presidente della onlus Nove Caring Humans, dal 2013 impegnata nel Paese asiatico con vari progetti rivolti alle donne e alle persone con disabilità. Candidato nel 2010 al Premio Nobel per la Pace, quando glielo si ricorda, svicola, perché «i grandi sono altri, Mandela, madre Teresa...».

Eppure lei ha fatto dei miracoli. Le sue protesi hanno ridato mani e piedi a chi non li aveva, ha formato questi ragazzi e reinseriti socialmente e professionalmente, alcuni li ha avviati al basket in carrozzina, e sono diventati dei campioni. 

In un posto come l’Afghanistan, dove manca l’essenziale, all’inizio lo sport mi sembrava quasi un lusso, un sovrappiù. Poi invece ho capito che è un diritto per tutti, giocare è un diritto per tutti. Non è che perché hai una disabilità allora devi stare in un angolo a guardare gli altri. E poi lo sport mette insieme la riabilitazione fisica e il reinserimento sociale. Bambini, che sono stati isolati o che sono stati solo in famiglia, messi insieme ad altri, improvvisamente formano una squadra, imparano che ci sono altri bambini come loro, cominciano a socializzare, a vedere il mondo in un altro modo, si divertono, e si aprono i loro orizzonti, perciò si sentono sicuri di sé, l’autostima migliora. Alcuni partecipano alla squadra nazionale, viaggiano all’estero, diventano dei modelli per gli altri, la gente viene a vederli giocare, li applaude e grida il loro nome, è una trasformazione straordinaria. Facciamo giocare insieme ragazzi con disabilità lieve e ragazzi con disabilità grave, è un progetto molto inclusivo.

E che ne è delle ragazze?

C’erano squadre femminili di pallacanestro in carrozzina, giocavano anche molto bene, poi, improvvisamente, i talebani hanno deciso che lo sport è, prima hanno detto «inutile», poi «dannoso» e, soprattutto, «immorale» per le ragazze che, praticandolo, possono assumere posizioni provocatorie. Tuttavia, il giovedì e il lunedì riserviamo loro la palestra per quella che abbiamo chiamato «fisioterapia sportiva», e che coinvolge quasi duecento ragazze. Giocano tra di loro, a porte chiuse, ma soprattutto si incontrano. 

I talebani vengono a vedere i tornei?

Due mesi fa Nove Caring Humans ne ha organizzato uno a Jalalabad, una zona pashtun con grossa componente talebana tra la popolazione. Erano presenti, tifavano, gridavano. Tutti con il kalashnikov al collo. Speravo non si mettessero a sparare in aria in segno di gioia. Per fortuna si sono limitati ad applaudire. Erano molto incuriositi, era per loro sbalorditivo vedere gente che gioca in carrozzina. Mi piace molto stupirli.

Come vede il futuro dell’Afghanistan?

Non molto bene. Il Paese non interessa più a nessuno, prima dilaniato, poi dimenticato. Poi c’è stata la chiusura dell’Usaid decisa dall’amministrazione americana, l’Inghilterra, per riarmarsi prenderà i fondi dalla cooperazione internazionale, altri faranno lo stesso, quindi ci sarà un ulteriore peggioramento, e l’Afghanistan la pagherà molto cara. L’economia è al disastro e la situazione è esplosiva. I talebani fingono di avere la situazione sotto controllo, in realtà sono divisi, una fazione è più rigida, una più aperta. Chi vincerà tra le due? Ci potrebbe essere una nuova guerra civile. C’è tanto bisogno di aiuto. Ecco perché continuo a restare, perché mi sento ancora abbastanza utile.

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Data di aggiornamento: 25 Giugno 2025
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