Stare, voce del verbo vivere
Diventa sempre più chiaro che la pandemia in corso non ci lascerà in pochi mesi, né ci permetterà di ritornare come eravamo. È tutto spaventoso e negativo?
Nessuno meglio dei poeti sa rispondere a questa domanda: «Questo ti voglio dire – recita Mariangela Gualtieri nella sua "9 marzo 2020" – ci dovevamo fermare. / Lo sapevamo. / Lo sentivamo tutti / ch’era troppo furioso il nostro fare. / Stare dentro le cose. / Tutti fuori di noi. / Agitare ogni ora / – farla fruttare. Ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo. / Andava fatto insieme…».
Versi che colgono un comune sentire e che suggeriscono che la pandemia, al netto del dolore e del limite, ci offre la possibilità di un nuovo inizio, proprio perché riguarda tutti e tutto il mondo allo stesso modo. Uno scenario nuovo. Per questo è importante reimparare le parole, metterle al confronto con la realtà di oggi e scoprirne inediti significati.
Una delle parole maggiormente in crisi è «stare», tra i verbi più comuni e più sfruttati. Non si «sta» più allo stesso modo in nessun luogo, a scuola, a casa, in città, nei mezzi pubblici, al lavoro, in chiesa e nemmeno dentro di noi. Dello stare è mutato tutto: il tempo, lo spazio, la forma, le relazioni.
«Stare significa “restare”, “resistere” ma anche “esistere” – afferma Danilo Casertano, l’inventore dell’asilo del mare e del bosco, una sorta di insegnante dissidente lontano anni luce dalle modalità della scuola italiana, a suo dire ancora ferma all’Ottocento –. Pensare a uno stare in classe solo come a un permanere in un’aula chiusa è una contraddizione in termini, perché il significato etimologico di “aula” è “spazio aperto e arioso”».
Non solo, anche il significato di «scuola» è stravolto: originariamente significava «tempo libero, nel senso di otium latino, cioè tempo liberato dalla guerra e dal lavoro dei campi e destinato all’imparare».
Il tempo della modernità, continua Casertano, è simile al tempo antico, senza divisioni rigide e orari prestabiliti: «Oggi il nostro “stare” è sempre più flessibile, non c’è più una divisione netta tra spazio di vita e di lavoro, tra casa e scuola. Anzi, lo sviluppo repentino delle tecnologie ci obbliga a un apprendimento che dura tutta la vita».
La città "elastica" e umana
Il nuovo concetto di stare interpella in maniera urgente e innovativa anche chi è chiamato a progettare spazi e tempi del vivere, nei luoghi pubblici come tra le mura domestiche.
«Viviamo ormai in un quasi permanente stato di emergenza: terrorismo, pandemie, cambiamento climatico, conflitti sociali. Dovremmo sempre più ripartire da un’architettura che interagisca e affianchi la medicina e l’economia». A esserne convinti, Jorge Lobos ed Eleonora Carrano, tra i massimi esperti mondiali di «architettura delle emergenze e dei diritti umani».
Con l’università Iuav di Venezia (tra le prime in Europa a istituire un master per formare professionisti che operano in situazioni di emergenza umanitaria) e il loro progetto Architecture & Human Rights, hanno avviato un master che nella prossima edizione, «Resilient spaces», vedrà la pandemia al centro di ulteriori approfondimenti.
«Molti governi sembrano aver dimenticato che una risposta efficace alle emergenze era già stata data dall’architettura insieme alla medicina – affermano –. Per la tubercolosi, che nel XX secolo uccise circa 100 milioni di persone, la realizzazione di “open air school” e sanatori antitubercolotici rappresentò un efficace modello di contrasto al contagio. Per questo l’architettura dovrebbe essere un diritto di tutti i cittadini».
Il covid-19 ha messo ancor più in evidenza le disparità, esasperando le condizioni di vita delle famiglie con minori possibilità economiche e delle persone più vulnerabili che rischiano, per la paura, di rimanere rintanate nelle loro case.
«Chi lavora sugli spazi della vita sociale è chiamato a dare un contributo, a favorire l’apertura. La pandemia non può rimanere senza risposte, lasciando campo libero alle angosce per il futuro. Anzi, va trasformata in una grande opportunità di rinnovamento e di riduzione delle disparità sociali».
La sfida di chi progetta passa attraverso distanziamento sociale e messa in sicurezza delle grandi aree urbane. «L’emergenza insegna che non esiste un neocapitalismo realizzabile senza un sistema di servizi pubblici efficace, un servizio sanitario nazionale forte e un sistema educativo che azzeri gli svantaggi sociali – proseguono –. Città ed edifici devono offrire opzioni per la vita collettiva fuori dalle proprie abitazioni».
Serve, allora, una urbs «elastica» capace di contrazione ed espansione dello spazio, ma anche di flessibilità tra vicinanza e distanziamento. «Progettare una “città elastica” vuol dire preparare le città ad affrontare fenomeni estremi come le pandemie. Pensando, ad esempio, a sistemi che potrebbero garantire l’accesso a tutti nei momenti di pace e prosperità, per poi chiudersi e frammentarsi in blocchi indipendenti durante epidemie o conflitti».
Stare nella crisi
Le riflessioni dell’educatore e degli architetti ci portano a due considerazioni importanti. Anche i saperi non sono più rigidi e settoriali, ma sono interdipendenti. Se al centro c’è l’essere umano, lo spazio non è solo architettura ma medicina, scuola, socialità, relazione, economia, ecologia, democrazia.
La seconda considerazione è che lo spazio non è mai solo fisico ma è anche interiore. Lo stare in un luogo o in una situazione influisce sullo «stare con noi stessi».
La pandemia è entrata prepotentemente anche in questo intimo rapporto, stravolgendolo. Ci siamo ritrovati immobili, chiusi in casa, isolati, esclusi dal tempo e dallo spazio della quotidianità, mentre fuori dalla nostra porta accadeva l’impossibile: il dolore di chi stava male, la morte in solitudine, l’impossibilità delle relazioni umane, la paura per le persone care. «In Occidente eravamo abituati a pensarci come signori della vita – afferma Susy Zanardo, filosofa –, e ci siamo riscoperti esposti alla morte, sciolti dall’illusione della potenza».
Un buco nero nella nostra storia «che deve ancora trovare le parole e i gesti per essere espresso ed elaborato». Ma come se ne esce? Innanzitutto imparando ad «abitare» l’imprevisto. «Accettiamo di “stare” nel presente – spiega –, anche se questo significa confrontarsi con il dolore e la paura. Facciamolo coscienti che questo “stare” ci serve per andare oltre. Se crediamo di poter superare una crisi in modo rapido, senza sostare, senza riflettere su quanto ci sta accadendo, rischiamo di perdere il senso delle cose».
L'intervista a Eugenio Borgna
Eugenio Borgna, 90 anni compiuti a luglio, è uno dei più grandi psichiatri italiani. Una vita dedicata a indagare l’animo umano attraverso un approccio «gentile» alle fragilità e alle paure. Lo ha fatto anche durante l’isolamento collettivo, rimanendo in contatto telefonico con i suoi pazienti.
Professore, per il lockdown lei ha scelto di tornare nella casa dov’è nato. Com’è andata?
Borgna. È una casa di campagna, ai confini tra Lago d’Orta e Lago Maggiore, la stessa dalla quale siamo dovuti fuggire nel 1943 con mamma, fratelli e sorelle perché i tedeschi avevano preso di mira la mia famiglia. Queste condizioni di vita non hanno imprigionato la mia quarantena: ho potuto leggere, studiare, scrivere, rimanere in contatto telefonico con qualche paziente e partecipare online a qualche incontro.
Qual è la sua prima riflessione?
La nostra vita è radicalmente cambiata in modi solo apparentemente analoghi. Siamo stati tutti chiusi in uno stare comune, e quasi interscambiabile, ma in realtà ben diverso. Lo stare ci ha rivelato di essere più che mai intessuto con ciò che siamo.
Cosa permette di non generalizzare ?
La superficialità o la profondità della nostra vita. Quale spazio avevano la nostra interiorità, la nostra tendenza alla riflessione, alla meditazione, all’interiorizzazione degli avvenimenti, e alla preghiera? Se questo cammino ci era abituale, o almeno non ci era sconosciuto, il nostro essere costretti a stare confinati in casa non ha inaridito la nostra vita emozionale, le nostre attese e le nostre speranze, l’autonomia della nostra immaginazione.
Dentro le mura di casa abbiamo dovuto guardare dentro e fuori di noi.
Guardando fuori credo sia stato forse impossibile non rimanere angosciati dalle cascate di dolore, dalle immagini della morte, delle sofferenze e della disperazione di tante persone conosciute o sconosciute, alle quali ci siamo sentiti vicini nel dolore e nell’angoscia. E, forse, quanta più vita interiore era in noi tanto più dolorosa è stata la nostra vicinanza a chi più soffriva. Semmai, queste nostre condizioni privilegiate hanno accresciuto le nostre ansie e la nostra solidarietà.
Cosa rende possibile uno sguardo differente sul mondo e su noi stessi?
Solo se la fede e la speranza ci sono state compagne di viaggio, il male di vivere lo potremmo incontrare con coraggio: con il cuore.
L’intero dossier, con i contributi di Danilo Casertano, insegnante, Jorge Lobos ed Eleonora Carrano, architetti dell'emergenza e dei diritti umani, Susy Zanardo, filosofa, e l'intervista integrale allo psichiatra Eugenio Borgna, è pubblicato nel numero di ottobre 2020 del «Messaggero di sant’Antonio» e nell'edizione digitale che puoi provare gratuitamente cliccando qui.