Torniamo a misurare i capitali
L’economia antica pensava che la ricchezza fosse legata al possesso di capitali. Palazzi, miniere, e soprattutto oro, erano considerati la vera ricchezza di famiglie, città o Stati. Quindi, la politica economica aveva un’unica indicazione: aumentare l’oro nei forzieri, e fare di tutto per farne uscire il meno possibile. A metà Settecento, poi, la scuola francese della «Fisiocrazia» operò un cambiamento radicale, dicendoci che la ricchezza più importante era invece un’altra: il flusso annuale di reddito che i capitali generano. E nacque il concetto del Pil, il prodotto interno lordo, che poi diventerà operativo solo con l’inizio del XX secolo e con lo sviluppo delle tecniche di contabilità nazionale.
Con la nascita dell’economia moderna iniziammo così a misurare i flussi, non più gli stock o i capitali. Si sapeva che i flussi, che il reddito, nascevano da capitali di varia natura – finanziari, umani, sociali… – ma restavano sullo sfondo della teoria economica e quindi delle misurazioni. E così, giorno dopo giorno, i capitali non più visti dalla teoria economica e dalla politica iniziarono a deteriorarsi. Li abbiamo consumati, anche perché all’inizio dello sviluppo economico capitalistico erano molto abbondanti (soprattutto quelli ambientali e quelli comunitari), e quindi il loro stock sembrava essere quasi infinito. Solo alla fine del II millennio abbiamo iniziato a prendere coscienza che quei capitali stavano davvero finendo.
Il primo capitale del quale (quasi) tutti vediamo il grave deterioramento è quello ambientale. La terra, usata come risorsa da estrarre senza reciprocità, sta levando il suo grido, raccolto da una ragazza (Greta) e da un vecchio (Francesco), ma molto meno dal mondo dell’economia e dalla politica. Il mercato, fondato sul mutuo vantaggio, non ha incluso in questa mutualità di vantaggi anche il vantaggio della terra, degli animali e delle altre specie dentro i calcoli dei costi e benefici, e la reciprocità intra-umana è cresciuta a spese della vita non umana, una scelta non etica e pure miope e stupida da più punti di vista.
Quello naturale non è però il solo capitale in via di estinzione. Un altro «stock» che il capitalismo sta consumando è quello civile e spirituale, fatto di virtù civili e di capacità di stare al mondo. Sono state le imprese a rendersene conto per prime, in base alla loro vocazione a speculare – da specula, il luogo dove ci si pone per vedere più lontano –. I giovani lavoratori arrivano nelle imprese sempre meno equipaggiati con quel capitale etico fatto di resilienza emotiva, di capacità di gestire conflitti, di cooperare, perché tutte queste abilità erano state gestite dentro codici etici e narrativi che nel Novecento si sono quasi esauriti. Ecco allora, da una parte, il disagio dei giovani lavoratori a inserirsi dentro le nostre organizzazioni produttive – di cui è segno il fenomeno, serio, delle «grandi dimissioni» di milioni di lavoratori dopo il covid –; e, dall’altra, la preoccupante proliferazione di una foresta di consulenti (coach, counselor, psicologi del lavoro, manager del benessere, e così via) che dovrebbero creare in house quelle virtù e capacità dei lavoratori che non arrivano più dall’esterno (famiglia, chiese, comunità…).
Che cosa fare? Intanto parlarne di più. Poi iniziare a misurare i capitali, non solo il Pil, che aumenta con le guerre, con l’azzardo e con il malessere della gente. Lanciare una stagione di nuovi misuratori «in conto capitale» che monitorino lo stato di salute di quel che resta del clima e delle virtù civili, dell’etica pubblica, del patrimonio morale e spirituale che hanno generato i miracoli economici e civili del Novecento.
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