La metamorfosi della prossimità
S’era mai visto, in altri momenti storici, un così ricco dilagare dei mezzi di comunicazione come ai giorni nostri? Eppure non abbiamo memoria di altra epoca in cui l’uomo si sia sentito così solo come oggi, quando tutti possono comunicare con tutti. È una bella contraddizione. Da cui nascono molti interrogativi sul nostro rapporto col prossimo. E, prima ancora, una domanda di fondo: ma oggi, nell’era della comunicazione di massa, chi è il mio prossimo?
Questa stessa domanda, «Chi è il mio prossimo?», fu posta duemila anni fa a Gesù da un dottore della legge. C’era dentro forse un po’ di malizia, il tentativo di portarlo su un terreno di dispute dottrinali e poi metterlo in difficoltà con qualche sottigliezza. Gesù, che non ama le dispute dottrinali, allarga però il discorso fino a renderlo un insegnamento universale, e risponde raccontando una storia che tutti, ma proprio tutti, possono capire, anche se non sono dottori: è la parabola del buon samaritano, riportata da san Luca nel suo Vangelo al capitolo decimo. È la storia di un uomo buono, il samaritano, che interrompe il suo viaggio lungo la strada tra Gerusalemme e Gerico per soccorrere un poveraccio che è stato aggredito dai briganti. Si occupa di lui fino a pagare un albergatore perché lo ospiti e lo curi. Ha evidentemente individuato nel malcapitato un suo prossimo e, a sua volta, si fa prossimo a lui, soccorrendolo amorevolmente.
Questo atto d’amore del soccorritore verso il ferito fa nascere tra loro un’esperienza di comunicazione, che rompe quel perimetro di solitudine che fino a qualche attimo prima aveva circondato ciascuno: l’uno preso dal suo viaggio e dai suoi affari, l’altro isolato nel dolore della violenza subita. Amare il prossimo, dunque, è comunicare con esso, nel significato più alto di questo verbo, che vuol dire condividere, mettere in comune, essere in comunione. Gesù nel suo Vangelo si pone in continuità con l’Antico Testamento, dove l’amore del prossimo è strettamente legato all’amore di Dio: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Levitico 19,18). E questo doppio comandamento di amore ha retto la civiltà e la cultura giudaico-cristiana per millenni.
«Dio è morto»?
E allora, che cos’è successo, se oggi ci troviamo in questa solitudine, che è lontananza dal prossimo? Per cercar di capire, riavvolgiamo il nastro della nostra storia cristiana. Torniamo a un secolo e mezzo fa, fine Ottocento. Friedrich Nietzsche, caposcuola filosofico del nichilismo, stende una pietra tombale su millenni di cultura e fede religiosa annunciando al mondo: «Dio è morto». E questo avviene dopo un paio di secoli di progressivo allontanamento del mondo occidentale dal cristianesimo. Di conseguenza, oggi è legittimo, anzi urgente, per un cristiano domandarsi: «Se, come dice Nietzsche, Dio è morto, dunque è crollato uno dei due pilastri del doppio comandamento d’amore, che fine ha fatto l’altro pilastro, cioè il prossimo?». Eccoci al punto dal quale siamo partiti.
Dà una sua risposta a questa domanda Luigi Zoia, psicoanalista di fama mondiale, in un suo piccolo ma interessante volume, e la risposta è già implicita nel titolo: La morte del prossimo, (Einaudi). Dunque «è morto anche il prossimo», oltre a Dio, ci dice Zoia: e passa in rassegna un gran numero di esempi che, secondo un suo lucido esame, dimostrano come, nelle condizioni di vita del giorno d’oggi, chi è altro da noi da prossimo è diventato lontano; e questo, nonostante le apparenze di condivisione che superficialmente ci trasmette il dilagare dei media e soprattutto dei social media. Ma attenzione: questo verdetto di Luigi Zoia nei riguardi del prossimo non è meno preoccupante della sentenza capitale di Nietzsche nei riguardi di Dio. Anzi, in certo qual senso è ancora più preoccupante. Perché, se la «morte di Dio» è una formulazione filosofica che può essere liberamente seguita o rifiutata, e in fondo coinvolge direttamente soltanto chi, seguendola, si è allontanato dalla fede, la diagnosi di una «morte del prossimo» riguarda tutti, volenti o nolenti, perché delinea un’evoluzione di allontanamento dalla prossimità che coinvolge tutta la società nella quale siamo immersi. Ma siamo davvero arrivati a questo punto?
Le vie dello Spirito
Quello che la nostra esperienza ci mette davanti, riguardando la storia di come gli uomini hanno comunicato tra loro, è che allo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha di solito corrisposto un restringersi della comunicazione interpersonale, di quella relazione che ci fa essere prossimo gli uni verso gli altri. Ah sì? Allora siamo nei guai. Osserviamo questo processo di perdita della prossimità nella comunicazione per eccellenza: lo spettacolo, o meglio l’esperienza di essere spettatori. Il teatro è stato per millenni, dai tempi degli antichi Greci fino alla fine dell’Ottocento, un’esperienza che accomunava gli spettatori non solo nell’assistere a uno spettacolo, ma nell’esserne parte. Nell’esperienza teatrale la prossimità del pubblico col palcoscenico è essenziale. E così pure la prossimità tra gli spettatori. Il pubblico è in qualche modo un coro che, con la sua attenzione e le sue reazioni, svolge un suo preciso ruolo nella dialettica palcoscenico-platea.
L’invenzione del cinema, a fine Ottocento, stravolge completamente questa dialettica: lo spettacolo cinematografico si ripete immutabile su uno schermo, indipendentemente dalle reazioni del pubblico, che non è più una «comunità» di spettatori, ma è frantumato in tanti singoli individui. Sì, assistiamo a volte alla risata collettiva di un pubblico cinematografico di fronte a una scena comica; ma tutto il patrimonio emotivo del film viene recepito ed elaborato singolarmente da ciascuno, in una condizione che molti psicologi avvicinano alla condizione onirica. Lo spettatore cinematografico si troverebbe, cioè, in una situazione simile al sogno: e ognuno il sogno se lo elabora per conto proprio.
Il mondo della comunicazione va avanti. Passiamo all’evoluzione successiva: la televisione. Sulla televisione il grande esperto Marshall McLuhan già negli anni Sessanta, nel suo famoso Gli strumenti del comunicare parla addirittura di ritribalizzazione: la comunità degli spettatori televisivi, anche se nella somma totale ammonta a parecchi milioni, è smembrata in tante tribù domestiche, ciascuna raccolta attorno alla «scatola magica» della propria tv. Tra i componenti del pubblico televisivo scompare ogni parvenza di prossimità.
Anche se ci vengono i brividi, arriviamo ai giorni nostri. Qui siamo alla deriva individualistica dei social media, dove ciascuno dialoga con il proprio telefonino, non solo quando è comodamente seduto in poltrona, ma anche mentre cammina per strada, non accorgendosi se per caso sta pestando i piedi a qualcun altro, che avrebbe potuto, o forse dovuto, essere suo prossimo.
Non ci sono dunque più vie d’uscita? Registriamo una voce positiva che invece riguarda internet. Secondo il sociologo catalano Manuel Castells, l’individuo che, attraverso il suo computer, viaggia su internet non è isolato: può arricchire a dismisura i propri rapporti con un prossimo lontano muovendosi in ogni direzione. Internet è, secondo Manuel Castells, una fittissima rete di legami orizzontali, che tende ad avvicinare tra loro gli utenti. Potrà internet invertire il processo di allontanamento dall’altro, creando una sorta di prossimità distante? Possono così nascere nuove vie alla prossimità attraverso la comunicazione? Non siamo in grado di trarre conclusioni, e nessuno specialista che si sia occupato del problema fino a ora ne trae.
Sarà forse importante ricordare, e riscoprire, che, nonostante l’invadenza massificante dei mezzi di comunicazione, nessuno ci può impedire di esercitare la nostra libertà riconoscendo come prossimo chi incontriamo per strada e può avere qualche problema, o chi è seduto accanto a noi in tram. Le vie dello Spirito sono infinite ed è non solo legittimo ma doveroso alimentare qualche speranza.
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