Un Paese per vecchi
Vado a trovare Rocco. Da mesi è in una RSA del centro Italia, sulle prime pendici di un Appennino umido di piogge. RSA, malinconico acronimo che sta per Residenza Sanitaria Assistenziale. In genere, nel parlare comune, un po’ ipocrita, si usa la formula «casa di riposo». Rocco è malandato, ma non lo ricordo vecchio. Si è vecchi alla soglia dei 70 anni? Viveva solo, in una sorta di garage. Un giorno cadde mentre inseguiva un bus. Dopo il ricovero ospedaliero, chiese aiuto ai servizi sociali del suo comune. Questa è la sua versione di quanto gli è accaduto: degenza in un centro di riabilitazione (quasi insignificante la sua fisioterapia là dentro) e poi gli assistenti sociali lo affidarono a un avvocato con funzione di amministratore e un giudice ne dispose il ricovero in questa RSA. Lontana ottanta chilometri dal suo paese. La mia, mi dice, dopo tre mesi è la prima visita che riceve.
Lo trovo invecchiato, siamo in pochi nel cortile della RSA, fa freddo: un uomo obeso si trascina su una panchina, una donna grida contro un’infermiera, un altro ha la testa appoggiata su un tavolo, un’altra donna cerca il suo asciugamano, mi appare disperata. Rocco allontana un uomo che si era avvicinato per chiedere una sigaretta. Mi dice che non sa perché è qui, che non gli passano i soldi della sua pensione, non può uscire e ripete che qui non ci vuole stare. Ha provato a fuggire un paio di volte. Lo hanno ripreso, ma fino alla stazione c’era arrivato. Una ribellione ostinata. Me ne vado, lascio cinque euro a Rocco. Per i caffè. Le sigarette gliele compra il direttore. Mi sento impotente. Io non sono un parente, non posso nemmeno chiedere ragioni. Lo abbandono anche io.
Sono coetaneo a Rocco. Forse lui è più giovane di me di qualche mese. E, allora, posso solo provare a scrivere queste pagine attorno ai «vecchi». Già, anziani o vecchi? Mi soccorre la pubblicità e Norberto Bobbio che, nel 1994, a 85 anni, tenne, all’università di Sassari, per la sua laurea ad honorem, un discorso che titolò, pur detestando Cicerone, De senectute. Anziano, spiegava il filosofo torinese, è un «termine neutrale». Da usare nei messaggi pubblicitari che già allora si moltiplicavano in cerca di nuovi consumatori. Non si deve parlare di «vecchiaia», brutta parola. Per Bobbio, che morirà a 95 anni, bastava «guardarsi attorno»: nelle case di riposo, negli ospedali, o nelle abitazioni più povere per rendersi conto «di quanto sia falsa la raffigurazione» del «vecchio è bello».
Dopo una doppia frattura al femore («una cosa da vecchi», mi disse il mio medico), ho vissuto due mesi in un centro di riabilitazione, dove, a un passo dai 70 anni, ero il più giovane, e ho conosciuto da vicino il mondo abbandonato dei vecchi. Scrivo anche per questo. Nel 2018, la Società di Gerontologia e Geriatria ha chiesto di spostare l’età in cui si è ritenuti vecchi. Oggi in Italia, si è, per convenzione non priva di conseguenze, ritenuti tali a 65 anni. Da cinque anni, i geriatri chiedono che si alzi questa scadenza a 75. La speranza di vita in Italia (il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone) si è allungata di vent’anni rispetto a un secolo fa: ha raggiunto gli 84,8 anni per le donne e gli 80,5 per gli uomini. Il compimento del centesimo anno di vita non è più una notizia da prima pagina (al primo gennaio di quest’anno erano ventiduemila gli ultracentenari, tre volte tanti rispetto a venti anni fa).
Sono oltre 14 milioni gli uomini e le donne con più di 65 anni in Italia. Il 24,1% della popolazione. Quasi uno su quattro. Nel 2050 saranno il 35%. Dall’altro capo della fila, i minori di 14 anni: sono la metà, il 12%, 7 milioni e trecentomila tra ragazzi e bambini. E stanno diminuendo. Nel 2022, per la prima volta dopo l’Unità d’Italia, sono nati meno di 400mila bambini. Fate voi i conti. Già trent’anni fa, il «vecchio» Norberto Bobbio scriveva: «Più vecchi e più anni di durata della vecchiaia: moltiplicate un numero per l’altro e otterrete la cifra che rivela l’eccezionale gravità del problema».
Luca Iacovone, 37 anni, è il giovane direttore della RSA del Brancaccio, casa di riposo nata, novanta anni fa, per volontà della chiesa materana. Mi porta in giro per i tre piani dell’edificio. Il salone del piano terra, dove le donne lavorano con l’uncinetto e si chiacchiera da una poltrona all’altra, occhieggiando la televisione perennemente accesa. Un vecchio e celebre avvocato ha trovato rifugio qua dentro. Due ospiti che si sono conosciuti nella RSA, qui si sono sposati: una grande storia. Ora dividono la stessa camera. Un ospite, un tempo piccolo «capo» di un quartiere della città, continua ad esserlo: quando entro mi chiede chi sono e chi cerco. Una donna che i figli, migrati al Nord, avevano convinto ad andare a vivere con loro è stata riportata indietro: la sua mente, lentamente, aveva dimenticato l’italiano e ricordava solo il dialetto della sua infanzia. Là non poteva parlare con nessuno. Un’altra donna, colpita da un’emorragia, culla con affetto una bambola e digrigna i denti. In un piano c’è chi non è autosufficiente. Luca ha un sorriso per tutti loro. Mi dice: «La vecchiaia non è una malattia, è un periodo della vita». L’ultimo, ed è possibile viverlo con dignità.
A scorrere articoli e statistiche i dati, spesso, non coincidono. Andiamo a tentoni. Quasi quattro milioni di over sessantacinquenni ha problemi funzionali. Cioè: non è autosufficiente. Oltre un milione di persone (in allarmante aumento) è colpito da Alzheimer. Le RSA possono ospitarne poco meno di 300mila (50mila sono strutture private). Le liste di attesa nel pubblico sono infinite: per poter entrare in centro diurno, a Firenze, si aspetta più di un anno. In Piemonte sono almeno 11mila persone ad aspettare il loro turno. Si salva, con fatiche sovraumane per figli e nipoti, chi può contare su quello che è definito, diplomaticamente, un welfare familiare.
Se si ha diritto a un’assistenza pubblica, rimane sempre una retta che, per metà, è a carico delle famiglie: tra gli 80 e i 110 euro al giorno per ospite. In Toscana (ogni regione ha le proprie norme e prezzi) il sindacato pensionati della Cisl ha calcolato che, dopo aver ottenuto il contributo pubblico, il ricovero di un familiare in una RSA può costare ancora tra i 12 e i 26 mila euro l’anno. 850 mila anziani ricevono insufficienti cure domiciliari pubbliche da infermieri e fisioterapisti: una media inferiore alle venti visite all’anno. Le/i badanti, a leggere i rapporti del Censis, sono un milione e 655mila. Sono costi insopportabili per la maggioranza delle famiglie. Due milioni e mezzo di uomini e donne con più di 75 anni vivono da soli (saranno quattro milioni nel 2041). Tra di loro mezzo milione sono in povertà assoluta. Contro la solitudine dei vecchi si scaglia papa Francesco. A guardare oltre oceano l’allarme è ancora più profondo: la metà degli americani vive in solitudine. «È un’epidemia» ha scritto Vivek Murthy, «chirurgo generale» degli Stati Uniti. Il mio amico Rocco è imprigionato in una RSA perché è solo. Nessuno lo ha protetto.
Valentina Blandi, 35 anni, dirige il Consorzio Zenit, un gruppo no-profit, vicino alla Chiesa fiorentina, che si occupa di sociale. Mi porta al quartiere delle Piagge, nella piana fiorentina lungo l’Arno. Un tempo quartiere-ghetto. Lunghi corridoi, gli ospiti, in una sala, stanno riempiendo di colori dei fogli. Penso che, alla fine, si torna bambini. Altre donne scivolano sulle loro sedie a rotelle e cercano il sole. Valentina ha chiesto alle animatrici di raccogliere «i desideri» degli ospiti. Paolo (se ho ben capito, vive in una RSA da tredici anni) ci pensa su un momento, poi risponde: «Andare alla Coop. Per guardare».
I grandi centri commerciali diventano un «desiderio». Vittoria mi dice: «Io voglio andare ai Gigli», immenso ipermercato della periferia di Firenze. C’è allegria al ricordo della libertà di andare al giardino di Boboli a passeggiare. Valentina deve parlare con le infermiere. Ne incontra due. Hanno difficoltà a tenere i ritmi del lavoro. Mancano le infermiere, mancano i medici, mancano gli operatori sanitari. «Sto aspettando che ne arrivino dieci dalla Bolivia, ma è una strada burocratica infinita, non riesco a farli arrivare». Dalla Bolivia! Mi stupisco. Il ricambio di personale è continuo. Nel giorno di un concorso, a fine giugno, le RSA fiorentine private si sono svuotate: tutti vogliono andare nel pubblico. Si guadagna di più. Si cerca di scappare dai pronto soccorso. E dalle RSA. Sono lavori massacranti.
Nella mia riabilitazione dalle fratture del femore, sono stato ricoverato in una clinica fiorentina del gruppo francese Korian. Quasi tutte le infermiere (brave, attente) erano peruviane. Ignoravo, allora, che la struttura nella quale mi trovano appartenesse a un gruppo francese e che avesse come business «l’invecchiamento di qualità» (l’abilità suadente degli uomini del marketing non ha limiti). La vecchiaia è oramai un affare. Un buon affare. É «oro grigio» che attira potenti fondi di investimento: Korian dispone di 90mila posti letto in Europa (settemila in Italia) e la sua «campagna acquisti» in Toscana è stata irrefrenabile. Il gruppo Kos (110 strutture in Italia) ha 13mila posti letto tra Germania, India e Italia. Sereni Orizzonti, società friulana, possiede ottanta residenze e ne inaugura di nuove con ritmi impetuosi. Anche il gruppo Zaffiro è friulano: quasi quattromila posti letto. A primavera il fondo Eurizon ne ha acquisito il 55% del capitale. I vecchi sono un investimento sicuro per il futuro. Non manca la materia prima, i vecchi saranno sempre di più negli anni a venire. Dove vivranno? È anche un affare immobiliare.
Napoli è la città più giovane d’Italia, Genova è la più vecchia. 130 anziani per cento giovani ai piedi del Vesuvio. A Genova, i vecchi sono 269 ogni cento giovani. «In questa città, la metà di chi ha più di 75 anni vive sola. E solitamente è una donna vedova», avverte Luca Borzani, storico genovese. Che assieme all’antropologo Marco Aime ha scritto un libro dal titolo spiazzante: Invecchiano solo gli altri (Einaudi). «C’è un’emergenza climatica, ma c’è anche, ugualmente allarmante, una insostenibilità demografica – dice ancora Borzani –. Per la prima volta, nel mondo, a partire dal 2018, con l’eccezione dell’Africa, gli over 65 sono più numerosi dei bambini fino a 5 anni».
In Irpinia incontro Simone Valitutto, un giovane antropologo salernitano, che sta facendo (gli antropologi studiano anche i vecchi!) un’indagine sugli anziani in ventotto comuni. «Qui, al Sud, funziona ancora la famiglia e il vicinato. Nei Quartiere Spagnoli, a Napoli, la donna che non può più scendere le scale è assistita dal caseggiato. Cala il panariello dalla finestra per avere la spesa. Aver un nonno o una madre in una RSA qui è ancora vissuto come un’onta. Per una donna è una condanna: non possono più cucinare o avere cura della casa». Simone mi ripete le stesse parole di Luca Iacovone e di Valentina Blandi: «La vecchiaia non è una malattia, è una parte della vita». Sono ragazzi giovani che si occupano dei vecchi.
Già, una parte della vita. Adriana aveva 87 anni quando un infermiere, nel centro di riabilitazione, in cui si trovava, scoprì che era stata una cantante lirica. Fino a quel momento era solo un corpo stremato, persino le sue ossa sembravano intirizzite, aveva un solo dente. Veniva parcheggiata su una sedia nella quale non riusciva nemmeno a stare. Una mattina, quell’infermiere decise di svegliarla facendole ascoltare la Turandot. Poi mi ha raccontato: «Sembrava rinata, quel giorno riprese a mangiare». Basterebbe così poco a rendere gli ultimi tempi della vita di questi «vecchi» una piccola felicità, un frammento importante di quanto ti è dato di vivere. Non è accettabile che la vecchiaia, specie se infortunata – e lo sarà –, sia solo un’attesa impaurita: si può ascoltare la Turandot e avere sogni.
A Matera, lo scorso anno, a fine estate, gli ospiti del Brancaccio hanno passato una settimana al mare: per alcuni di loro è stata è la prima «uscita» dopo dieci anni, per tutti è stato il ritorno in una «casa vera». Felicità. E poi può anche accadere che conquistino un posto privilegiato per assistere alla grande festa sacra della città. E ho visto questi vecchi appassionarsi per Tiktok. Infinite le visualizzazioni delle loro «scenette». Un nipote ha cominciato così a venire a trovare la nonna, perché star del più discutibile e divertente dei social. Prima non c’era mai venuto. Guardate anche voi, qui: https://www.tiktok.com/@lucaiacovone/video/7144040411164691717
Un’ultima meta in questo viaggio nel diffuso e immenso universo dei «vecchi». Lungarno Ferrucci, a Firenze, a fianco del ponte da Verrazzano. Qui, ai Canottieri Comunali, gloriosa associazione acquatica, incontro un gruppo di settantenni (tra i 68 e i 74 anni), stanno prendendo il sole, guardano i ragazzi vogare e si preparano loro stessi a scendere in acqua a bordo di un dragon, una grande canoa da venti posti. Hanno l’aria beata, chiacchiere fiorentine, sulle canoe, sul cibo, sulle ragazze, sulle gare future. «Cosa vuoi di più dalla vita? Qui ragazzi e anziani si mischiano, a volte si voga assieme, gomito a gomito, ci sfioriamo di continuo. Lo sport ci rende fratelli e sorelle». Li guardo ridere, mi siedo accanto a loro, li invidio mentre li vedo scendere sulla piattaforma pronti a sedersi ai posti di voga. Uno di loro, il più anziano, più tardi mi manderà una foto del loro gruppetto con un messaggio «fiorentino»: «Che goduria».
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