Zoppicando, come Giacobbe
Quale sia l’etica economica specifica del cristianesimo è questione annosa, poiché è dentro gli stessi vangeli che troviamo il primo pluralismo. Non è mai stato facile, infatti, mettere insieme il «guai ai ricchi» di Luca con la presenza di persone ricche nella comunità di Gesù (Levi, Giuseppe d’Arimatea…), o trovare una coerenza tra la «parabola dei talenti» e quella dell’«operaio dell’ultima ora» del vangelo di Matteo. Ciò che comunque è certo è la differenza, importante, tra l’etica del Vangelo, che è essenzialmente un’etica dell’agape, e l’etica delle virtù di origine greca e romana. Anche se nel corso del Medioevo l’etica cristiana ha incorporato l’etica delle virtù (o viceversa), fondando sulle virtù cardinali l’impianto civile e religioso della cristianità, è pur vero che l’umanesimo alla base del mondo greco e romano non è né quello biblico né quello evangelico, sebbene ci siano punti di contatto. L’antica etica delle virtù si basava sull’idea di eccellenza (areté) in un determinato ambito della vita (politica, sport…), un’eccellenza che può raggiungere chi pratica con impegno le virtù e che genera come suo premio massimo la felicità (eudaimonia), scopo ultimo della vita, come insegnava Aristotele.
Il Vangelo ha un’altra idea di eccellenza, e la sua felicità (se vogliamo chiamarla così) oltre a essere molto diversa da quella greca, non è certo lo scopo ultimo del cristiano. L’eccellenza cristiana è eccellere nell’amore-agape, non nelle virtù. Infatti il contrasto tra le virtù e l’agape sta proprio nel ruolo che hanno gli altri (esseri umani e creazione) in funzione a se stessi. Il limite dell’etica greca sta nel suo essere centrata sull’individuo che cerca di migliorare il proprio carattere tendendo a una perfezione morale. Il Vangelo cambia prospettiva e dice: «Non pensare a te stesso, pensa agli altri, decentrati, e ti troverai migliore senza averci pensato». Non propone un processo etico di formazione del carattere del singolo; è un’etica di comunione, della reciprocità, dove il «comandamento nuovo» è rivolto ai cristiani alla seconda persona plurale: «amatevi gli uni gli altri…». Se poi guardiamo ai primi apostoli, incluso Paolo, troviamo peccatori, traditori, impulsivi, paurosi, fragili, duri di cervice, cercatori di potere, non certo virtuosi. Ciò che li fece diventare maestri e testimoni della fede fu la loro capacità di amore-agape, di pentimento, di ricominciare sempre, e di credere di più all’amore di Dio che alle loro proprie virtù. Per non parlare dell’Antico Testamento, dove i padri della fede sono assassini (Mosè e Davide), bugiardi (Giacobbe), e così via.
Tutto ciò dovrebbe portarci a ripensare anche alla stessa idea cristiana e cattolica di santità o beatificazione, e ai relativi processi. Per individuare i testimoni della fede, dovremmo guardare non alle virtù eroiche ma alle «beatitudini eroiche» che esprimono valori molto, troppo diversi. Per non parlare dei miracoli come prova di santità, requisiti introdotti in età moderna e di Controriforma, e che hanno poco a che fare con l’umanesimo del Vangelo. Ho avuto i migliori maestri della fede in persone con molte imperfezioni, difetti, vizi, peccati, che però erano capaci di amare, che non hanno mai smesso di camminare alla sequela di una Voce, zoppicando come Giacobbe. La loro imperfezione è stato il pertugio spirituale nel quale è potuto penetrare un soffio dello Spirito che mi ha cambiato la vita, non rendendola perfetta ma solo più amata, mettendomi dentro il desiderio di provare a cambiare l’economia degli altri e dei più poveri. La nostra personale felicità, per il Vangelo, è troppo poco.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!