Insieme per dire «no» alla violenza
È trascorso ormai più di un mese da quel terribile 22 marzo in cui trentadue persone persero la vita nel corso di due attentati che a distanza di poche ore seminarono il terrore nella capitale belga. Ancora oggi cercare di rileggere a mente più fredda quei fatti non è semplice. Ma dobbiamo farlo. Per non cadere nel tranello di chi vuole utilizzare questi fatti per innescare uno scontro di civilità, magari affermando impunemente che si può ammazzare qualcuno in nome di Dio. Ma nessun Dio, comunque lo si chiami, potrà mai giustificare l’odio. Perché Dio è il padre della vita, non della morte. Di questo e di molto altro abbiamo discusso con Wael Farouq, professore di lingua araba e islamistica, docente di arabo presso l’Università americana del Cairo e visiting professor all’Università Cattolica di Milano.
Msa. Gli attentati di Bruxelles, ma ancor prima di Parigi, affondano le loro radici in un’appartenenza religiosa?
Farouq. Al contrario. Direi che in realtà la responsabilità sta nell’assenza di religiosità, anzi, a essere più precisi, in una visione riduttiva della religione e della stessa umanità. Una recente indagine dell’Europol, che analizza gli episodi violenti registrati in Europa nel periodo 2002-2012, dimostra che nel 94 per cento dei casi la violenza esula dall’aspetto religioso. Non è la religione, quindi, a scatenare la violenza. La radice di quanto accaduto a Bruxelles, ma ancora prima a Parigi, o dieci anni fa a Madrid, è sempre la stessa, così come identiche sono rimaste le risposte della società a questi atti terroristici, purtroppo. E così non riusciamo a mettere fine al male.
Che cosa intende?
La violenza alla quale stiamo assistendo da qualche tempo a questa parte, e che secondo alcuni sarebbe frutto di una contrapposizione tra Islam e mondo occidentale, in realtà è frutto di un incontro tra due realtà problematiche. Da un lato abbiamo una società occidentale che è caduta nel nichilismo e nel vuoto e dall’altro assistiamo alla trasformazione di una grande religione come l’Islam in un’ideologia politica. Questo incontro genera violenza.
Ma qual è allora la risposta giusta, se c’è?
Bisogna prestare attenzione alla cultura prevalente nel mondo di oggi, in cui sembra che tutti i princìpi siano sacri ma nella quale in realtà l’essere umano ha perso valore. Mi spiego. Oggi va di moda parlare di società dell’informazione, ma che cos’è l’informazione? È conoscenza senza l’esperienza umana. O ancora: al giorno d’oggi non parliamo più di persone ma di individui. E chi è l’individuo? È la persona privata delle relazioni con l’altro. Viviamo nell’epoca del «post»: postcolonialismo, postmodernismo, postindustrialismo. Oggi tutto è «post», perché in realtà non siamo più in grado di dare un nome alla condizione umana in cui viviamo. Questa oggi è la cultura dominante e se vogliamo combattere le radici della violenza dobbiamo cambiarla. Certo, è un lavoro lungo, lento, ma non ci sono alternative. Il terrorismo e la violenza sono manifestazioni estreme di una cultura che, come ho già sottolineato, ha una visione riduttiva dell’uomo: ma quando si perde di vista l’umano ogni cosa è possibile. Così pure in un Islam trasformato in progetto politico: l’essere umano è al servizio dell’ideologia e quindi lo si può uccidere; si può essere violenti verso se stessi e verso gli altri.
La presenza nelle nostre società dell’altro, del diverso per fede, per provenienza geografica, per etnia può aiutare a ridefinire la nostra identità?
A determinate condizioni. Guardiamo ciò che avviene oggi nello spazio pubblico. Spazio pubblico è diventato sinonimo solo di spazio fisico da condividere, nel quale ognuno deve avere una parte per sé senza disturbare o essere disturbato dagli altri, nel quale quindi ogni differenza deve essere annullata. Ma il termine «pubblico» sta a indicare proprio la presenza dell’altro: nulla è pubblico se non c’è l’altro, il diverso da me. Per definire il diverso da me devo però prima definire me stesso, cosa che oggi non riusciamo a fare né in Occidente né in una parte del mondo islamico. Guardiamo ai terroristi: che cos’ha fatto Isis con i cristiani in Iraq? Li ha perseguitati. Ma anche in Occidente la differenza è negata, seppure con modalità molto differenti: nello spazio pubblico un cristiano non può mettere la croce, una musulmana non può mettere il velo, un ebreo non può mettere la kippah, perché lo spazio pubblico deve essere neutro, svuotato dalle identità e dal significato che solo la religione può dare alla vita delle persone e alla vita delle comunità. Se non accettiamo di definirci anche in rapporto all’altro, oltre a perdere la nostra identità, creiamo tante società parallele. Accade in molte città europee, nelle quali permettiamo all’altro di essere solo se è invisibile, se cioè non entra nello spazio pubblico. Ma così facendo creiamo confini invisibili tra diverse parti della società, con il rischio che diventino prima o poi visibili con una bomba.
Ma i giovani attentatori di Parigi e di Bruxelles e anche i molti foreign fighters erano integrati in apparenza...
Erano integrati nel senso che vivevano immersi in questa società. Molti di essi andavano in discoteca, assumevano droghe, avevano una vivace vita notturna... Ma questa è integrazione al nulla. Quando si chiede agli immigrati di integrarsi a che cosa vorremmo che si integrassero in realtà? Quali sono i valori della società occidentale? La libertà? Ma la libertà non è un valore solo occidentale, bensì umano, valido in tutte le civiltà. E allora? Devono forse integrarsi alla «legge» che fa di una persona un individuo? Che cosa sono la libertà, l’amore, in assenza di una identità, di una storia, di una religione? Gran parte dell’Occidente pensa che i propri valori siano nati oggi e non siano frutto di un lungo percorso storico, in cui la religione ha giocato un ruolo fondamentale.
Secondo alcuni, il problema della violenza starebbe all’interno dello stesso Islam, nel rapporto tra sunniti, sciiti...
Il mondo musulmano è molto simile a quello cristiano. Anche voi avete i cattolici, gli ortodossi, i protestanti e all’interno di questi ultimi gli evangelici, i valdesi… Per noi è lo stesso. Per capire bene l’altro devo conoscere e capire prima me stesso. Se non siamo in grado di dire che cos’è oggi il Cristianesimo, che cos’è l’Occidente, non potremo nemmeno dire che cos’è l’Islam. Perché l’altro mi aiuta a definire meglio me stesso.
Che cos’è per lei, musulmano, il Cristianesimo?
Da musulmano io devo credere nel Cristianesimo, come parte della mia fede («gli scritti sacri islamici conservano parte degli insegnamenti cristiani», EG n. 252, ndr). Ma chi mi ha fatto capire in modo chiaro che cosa sia il Cristianesimo non sono stati i discorsi di principio, bensì l’incontro con l’essere umano, con i cristiani. È stato lo sguardo che il fedele cristiano ha sul mondo, sugli altri, uno sguardo, una capacità di cercare il bene e il bello in ogni situazione e in chiunque, anche nei nemici. È questo, secondo me, il cuore del Cristianesimo. I cristiani vedono in me il bello e il bene che io non vedo e mi aiutano così a tornare alle mie radici buone. Questo sguardo non è facile, ma un vero cristiano ce l’ha, ha questa capacità di vedere. In fondo lo dice anche il Vangelo: vieni e vedi.
ISLAM, UN AIUTO PER L'EUROPA
Yahya ‘Abd al-Ahad Zanolo, Responsabile Triveneto CO.RE.IS (Comunita Religiosa Islamica Italiana)
E se l’Islam, invece di essere visto come un problema da risolvere o integrare, fosse in realtà un aiuto prezioso per un’Europa alla ricerca delle proprie radici? Di questo abbiamo discusso di recente al Parlamento di Berlino, insieme con i rappresentanti musulmani di tutta Europa, riuniti per trovare soluzioni concrete alla luce dei fatti drammatici che hanno colpito alcune capitali europee. Se è vero che, come riporta un hadith profetico, «l’Islam è nato straniero e finirà straniero» e che la sua funzione nei secoli è sempre stata quella di un ponte tra Oriente e Occidente, forse la vera sfida per i musulmani italiani ed europei è proprio quella di riscoprire questa funzione di rinnovamento spirituale e intellettuale, ancora prima di concentrarsi sugli aspetti organizzativi e sociali.
Non si tratta infatti di «islamizzare» l’Europa né tanto meno di «europeizzare» l’Islam, ma di capire che se il più grande dei sapienti della tradizione islamica, lo Shaykh Al-Akbar Muhiddin Ibn Arabi, era nato proprio in Europa, in Spagna, un’incompatibilità in realtà non c’è mai stata tra mondo islamico e Occidente europeo, che invece si sono influenzati e arricchiti vicendevolmente per oltre mille anni, oltre che in Andalusia anche in Sicilia e a Venezia, città dove, secondo lo storico Alessandro Barbero, per secoli vi è stata l’unica moschea europea (il fondaco dei Turchi). E proprio a Venezia di recente abbiamo potuto partecipare, accanto al patriarca Francesco Moraglia e a rappresentanti dell’ebraismo di tutto il mondo, alle celebrazioni per i 500 anni del Ghetto, il primo al mondo. Nella speranza di debellare futuri ghetti, oltre che fisici soprattutto mentali e culturali, come musulmani europei guardiamo all’esempio dei fratelli ebrei per imparare a praticare un’unione tra identità occidentale e religiosa monoteista, vivendo integralmente la spiritualità in armonia con la fedeltà ai valori civili europei.
Ma in che modo l’Islam può essere d’aiuto all’Europa? Innanzitutto ritrovando un senso di unità al di là dei confini politici, se è vero che, come affermato da uno dei docenti di Berlino «l’unità del mondo islamico nella sua storia non si fondava su una territorialità, bensì proveniva dal dibattito teologico e sapienziale, e per questo un Islam europeo che si concepisca da un punto di vista politico sarebbe in contraddizione con la sua stessa storia». Poi con una consulenza per una reazione interdisciplinare al pericolo del fondamentalismo, coordinando ambito educativo, istituzionale, sociale e relativo alla sicurezza. Una maggiore unità tra questi ambiti è sempre più necessaria e vicina a una sensibilità islamica, per la quale le scienze sono sempre state distinte, e al tempo stesso unite, dalla scienza dell’unità, ilm al-tawhid. Infine il dialogo interreligioso. Proprio in Europa una collaborazione tra ebrei, cristiani e musulmani potrebbe essere uno degli apporti speciali dell’Islam, unica religione, in quanto ultima, a riconoscere la validità, origine divina e sacralità delle religioni precedenti, come afferma in numerosi passi il sacro Corano.
CONTRO LA PAURA RAFFORZIAMO DEMOCRAZIA E LIBERTA'
Youssef Sbai, Islamologo e ricercatore, Vice presidente UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia)
«O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda. Presso Allah, il più nobile di voi è colui che più Lo teme» (Corano, Sura XLIX, Vers. 13). Questo testo invita i gruppi di persone a conoscersi culturalmente. Si tratta dell’interazione tra le culture diverse presenti nello stesso territorio.
Raphaël Liogier, direttore dell’Osservatorio delle religioni e docente presso l’Iep (l’Institut d’études politiques) di Aix-en-Provence, ha studiato i profili di decine di terroristi o aspiranti terroristi francesi e ha concluso: «Nessuno di coloro che sono intervenuti sul suolo francese, da Mohamed Merah a quelli del 13 novembre, sono passati per una formazione teologica o una graduale progressione della pratica religiosa. Si tratta di persone che vivono già nella violenza, e poiché l’Islam è attualmente sinonimo di violenza anti-sociale, essi vogliono esprimere il loro desiderio di essere antisociali. Prendono delle posture fondamentaliste, ma sono semplicemente delle posture. Coltivano uno stile che io chiamo neo-afghano, alla ricerca di una sorta di romanticismo neo-guerriero». (Agence France-Presse, AFP).
Un poliziotto ha detto all’agenzia di stampa francese AFP che, durante un interrogatorio, un apprendista jihadista gli aveva detto: «Io, del Corano me ne frego. Ciò che m’interessa è il jihad». L’autorevole esperto di Islam Olivier Roy, in un articolo ha detto che «l’Is attinge a un grande bacino di giovani francesi radicalizzati, che a prescindere dalla situazione in Medio Oriente sono già in dissidenza e sono alla ricerca di una causa, di un’etichetta, di una grande narrazione su cui apporre la firma sanguinaria della loro rivolta personale». Non siamo dunque dinanzi a una radicalizzazione dell’Islam, ma all’islamizzazione del radicalismo.
L’unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) ha ribadito nei comunicati stampa e nelle interviste rilasciate ai differenti organi di stampa, subito dopo gli attentati sia di Parigi che di Bruxelles, la sua ferma condanna agli attacchi terroristici e ha ripetutamente lanciato degli appelli per l’unità della società e la sua coesione. Meno democrazia e più xenofobia, odio o paura… sono le reazioni negative tanto desiderate dai terroristi. «Per vincere, i terroristi fondamentalisti possono tranquillamente contare sulla miope collaborazione dei loro nemici» (Zygmunt Bauman, 2015).
L’accoglienza ostile verso i rifugiati – rappresentata dai nuovi muri – da una parte scoraggia i potenziali rifugiati che sono ancora nei loro Paesi, dall’altra amplia le possibilità di reclutamento per le cellule terroristiche. Tra le risposte più convincenti sul da farsi vi è senz’altro quella dello stesso Bauman e di Robert Castel: «La vittoria sulle insidie della paura è da cercare sopra i confini nazionali, in una Europa sociale e, a livello mondiale, nella creazione e nel rafforzamento di istituzioni internazionali capaci di controllare i rischi». Lavorare di più per garantire la giustizia, rafforzare l’autodeterminazione dei popoli e la stabilità, e appoggiare i processi di democrazia e di libertà. «Lungo cammino, ma senza alternative».