Chi ha paura dell’atomo?
Era il 29 aprile 1986. La primavera ci stava regalando giornate soleggiate che avevano già dissipato tutti gli umori dell’inverno. Quel giorno eravamo in gita scolastica a Legnaro, alle porte di Padova, in visita al centro ricerche dell’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Dovevamo vedere Moby Dick, un avveniristico acceleratore di particelle. Chernobyl non sapevamo nemmeno dove fosse. Eppure in tv non si faceva che ripetere il nome di quella remota città dell’Ucraina, associata alle martellanti immagini, riprese dagli elicotteri militari, di un rossastro e sconnesso incendio che, tra il susseguirsi di allarmi e smentite, ardeva tra i rottami metallici di un impianto nucleare per la produzione di energia elettrica.
Che qualcosa non andasse per il verso giusto, se n’erano accorti per primi gli scandinavi che, da tre giorni, avevano iniziato a rilevare, nei loro territori, crescenti livelli di radioattività. A Legnaro parlammo poco di Moby Dick. I fisici e i ricercatori che ci facevano da guide si affannavano a riportare nell’alveo della nostra gita di istruzione tutti gli interrogativi che noi, invece, dirottavamo sulle nostre giustificate preoccupazioni. Le risposte erano sempre le stesse: «Non state all’aperto, non mangiate verdure, specie quelle a foglia larga; non bevete il latte, tenete in casa i fratellini più piccoli. Finché passa l’emergenza». (Già, ma quando sarebbe passata?). Tentavano anche di rassicurarci. Volevano che fosse chiaro che la ricerca scientifica non aveva nulla a che fare con chi costruisce impianti pericolosi, armi atomiche o fa esperimenti azzardati. Come a Chernobyl. Ma a quale prezzo? Appena tre mesi prima, era esploso in fase di decollo lo Space Shuttle Challenger, incenerendo in un attimo l’ottimismo dell’umanità per l’apparentemente inarrestabile conquista dello spazio. Il progresso non è mai stato una passeggiata. Per nessuno. Ricordo un bizzarro signore, inviato da chissà chi, che girovagava tra i paesini dell’entroterra veneziano con il suo contatore Geiger. Rilevava la radioattività con i famigerati Becquerel. Ve li ricordate? In un campetto sterrato di calcio non lontano da casa mia c’erano anomali livelli di radioattività rispetto al fondo naturale. Solo a qualche chilometro di distanza risultavano molto più elevati. Da che cosa dipendeva? Dallo iodio radioattivo arrivato da Chernobyl? O forse dal cesio?
Insomma, Chernobyl non era più soltanto una città remota e sconosciuta dell’Ucraina. Il fall out (cioè la ricaduta di pulviscolo radioattivo), come un mostro invisibile si aggirava per l’Europa, trasportato dai venti, anzi era diventato parte di noi. E non sapevamo né quando né come si sarebbe manifestato; quanto tempo ci avrebbe messo a danneggiare il Dna delle nostre cellule. Iniziavamo a realizzare che quella di Chernobyl sarebbe passata alla storia come una delle peggiori catastrofi provocate dall’uomo, destinata a essere ricordata nei millenni: quelli necessari al decadimento dei radionuclidi.
Una lezione che non è servita a molto, alla luce di quello che è accaduto, solo cinque anni fa, a Fukushima, in Giappone, dove ancora una volta la litania degli infallibili e collaudati sistemi di sicurezza, della quasi nulla eventualità di incidenti, si è spenta di nuovo nell’ignominia. Affamati di energia Secondo la World Nuclear Association, i reattori nucleari sono circa 430, presenti in oltre trenta Paesi del mondo. A guidare la classifica sono gli Stati Uniti (100 reattori), seguiti da Francia (58), Giappone (48, ma hanno subito uno stop dopo l’incidente di Fukushima), Russia (33), Cina (27, anche se alcune fonti li accreditano a una ventina), Corea del Sud (23), India (21), Canada (19), Regno Unito (16), Ucraina (15), Svezia (10). Sono invece una settantina i reattori in costruzione, molti dei quali, in realtà, da parecchi anni. La Cina ne ha in programma almeno 24. A livello mondiale, quelli di terza generazione, che hanno alimentato a lungo le speranze di un nucleare più «affidabile», sarebbero meno di 20. Ma si stanno allungando i tempi e i costi relativi al loro completamento. In Europa l’età media delle centrali nucleari in attività è di quasi trent’anni. E il fatto di doverne assicurare la manutenzione costituisce un dilemma tra l’opzione di garantirne l’operatività e quella di smantellarle. In entrambi i casi occorrerebbero miliardi di euro per mettere in sicurezza impianti, reattori, noccioli e scorie. Un grattacapo che nessun governo è ancora riuscito a risolvere. Soprattutto per una questione di costi. Ciò che preoccupa sono gli stress test disposti dall’Unione europea all’indomani dell’incidente di Fukushima, che hanno rivelato come molte centrali europee destino più di una perplessità sul piano della sicurezza. Alcune centrali sono obsolescenti. Altre presentano crepe. Con qualche azzardo, il Belgio ha fatto ripartire le centrali di Doel a nord di Anversa, e di Tihange vicino a Liegi. Scelta contro la quale il web si è mobilitato con un appello on line che ha già raccolto centinaia di migliaia di firme, comprese quelle di intellettuali e scienziati che, paventando il rischio di una nuova Chernobyl nel cuore dell’Europa, hanno denunciato esplosioni, incendi e fughe di gas avvenute in tempi recenti, e addirittura problemi di integrità strutturale. Ma allora a chi interessa l’energia nucleare? A non aver dubbi è Vincenzo Balzani, professore emerito di Chimica all’Università di Bologna e membro dell’Accademia dei Lincei, curatore, con altri docenti universitari e ricercatori del Cnr e dell’Enea, del sito www.energiaperlitalia.it: «Il nucleare civile interessa a quelle nazioni che hanno anche il nucleare militare. Perché c’è una sinergia tra i due settori (il plutonio necessario a costruire gli ordigni atomici si può estrarre dalle barre di combustibile nucleare utilizzato in un reattore civile, ndr). Si spendono i soldi nel civile per avere dei benefici sul versante militare. E così il nucleare si sviluppa in Cina, Russia, Iran, Israele. Negli altri Paesi, invece, si esce dal nucleare. Il vero business del nucleare non è tanto quello di costruire le centrali, quanto piuttosto quello di dismetterle». In Italia c’è anche un altro motivo che scoraggia l’impiego dell’energia nucleare: «Il nostro Paese è densamente popolato e in gran parte sismico – ricorda Balzani –. In questi ultimi anni, con il fotovoltaico abbiamo prodotto energia elettrica pari a quella generata da due centrali nucleari. Chi investe ancora nell’atomo? Non si investe più nemmeno nel petrolio!». L’Italia è uscita dal programma nucleare in seguito al referendum del 2011, ma è ancora alle prese con il problema dello smantellamento dei suoi siti nucleari, e con lo smaltimento delle scorie da stoccare, che si aggiungono a quelle provenienti da ospedali e industrie. Il nucleare di arabi e cinesi Le energie rinnovabili: solare, eolica, idroelettrica e geotermica stanno rapidamente conquistando quote crescenti di mercato. Eppure gli insospettabili Paesi del Medio Oriente si stanno convertendo al nucleare, come nel caso dell’Arabia Saudita che ha sottoscritto con la Russia di Putin una serie di accordi di cooperazione che potrebbero portare i due giganti del petrolio e del gas a costruire nuovi reattori. Se ne ipotizzano 15 o 16. Il consumo elettrico dell’Arabia Saudita cresce dell’8 per cento ogni anno anche a seguito dell’aumento della popolazione. Così, il non più florido mercato del petrolio ha convinto gli arabi a destinare quote crescenti di idrocarburi all’esportazione invece che all’uso interno. Non a caso, il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente siglato un accordo da un miliardo di dollari proprio con il saudita re Salman, coinvolgendo i rispettivi giganti del petrolio: Sinopec e Aramco. La Cina è in buoni rapporti d’affari anche con l’Iran, appena uscito dall’isolamento internazionale. E lo stesso Iran, che «galleggia» su immensi giacimenti di idrocarburi, ha un proprio programma nucleare, ufficialmente per usi civili. Ma perché i magnati del petrolio e del gas pensano al nucleare e alle rinnovabili?
Oltre ai riflessi sul piano militare, le ragioni sono almeno tre: innanzitutto l’«oro nero» non è più considerato redditizio come una volta; poi perché è ormai diffusa la consapevolezza del suo esaurimento in tempi relativamente «brevi» e, infine, per il fatto che la conversione energetica imposta dagli effetti potenzialmente catastrofici prodotti dai cambiamenti climatici, spingerà buona parte del mondo ad abbandonare più rapidamente del previsto i combustibili fossili, come petrolio e gas, cioè la materia prima che ha fatto la fortuna del Medio Oriente e dei Paesi del Golfo Persico. Che sovrani medio-orientali, sceicchi ed emiri abbiano sentito che il vento è cambiato, lo si riscontra anche dai loro massicci investimenti in tutto il mondo in campo finanziario, immobiliare, commerciale, turistico e nel trasporto aereo. Italia compresa. L’imperativo è «diversificare». Il petrolio non è più il core business. Sono rimasti i cinesi (maggiori produttori e consumatori mondiali di carbone, tra non molto tallonati dall’India), a essere affamati di energia, tanto da aver «colonizzato» soprattutto l’Africa a caccia di risorse naturali necessarie ad alimentare il loro possente dispositivo industriale. Si stima che tra quindici anni i cinesi consumeranno più petrolio degli americani, e che nel 2040 la domanda di energia della Cina sarà il doppio di quella degli Stati Uniti.
Tuttavia le città avvolte dallo smog, l’aumento di patologie un tempo sconosciute all’ombra della Grande Muraglia, i fiumi e i laghi prosciugati, lo spopolamento delle campagne e l’immigrazione nelle città, oltre alla netta consapevolezza ed evidenza, anche in Cina, di quanto sta accadendo al pianeta, hanno indotto Pechino a imboccare precocemente la strada delle fonti rinnovabili e del nucleare che dovrebbero contribuire, nei prossimi anni, a ridurre in modo significativo le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, e quindi il riscaldamento globale. Un altro scenario riguarda l’India che è destinata a crescere in modo esponenziale almeno fino al 2040: più di quanto altre fonti di energia, nucleare e rinnovabili, saranno in grado di soddisfare. Oggi il subcontinente asiatico conta un sesto della popolazione mondiale. E dovrà provvedere a fornire l’energia elettrica alle nuove infrastrutture industriali, a quasi 250 milioni di abitanti che non ce l’hanno, e con la prospettiva che 300 milioni di persone in più andranno a vivere nelle città contribuendo a una vertiginosa impennata della domanda di energia. Affari, sicurezza e ambiente I fautori del nucleare sostengono che l’atomo «non produce» anidride carbonica come gas e carbone. Per converso, paga lo scotto sia dei rischi connessi alla gestione delle centrali, sia dei secoli – o dei millenni – necessari all’abbattimento della radiotossicità dei prodotti di fissione. «La questione delle scorie radioattive – osserva il professor Balzani – non è stata risolta nemmeno dagli Stati Uniti che sono i più tecnologicamente avanzati nel settore nucleare, e che hanno un sacco di spazio. Così tengono le scorie nelle piscine delle loro centrali nucleari, in attesa che la radioattività decada». Inoltre l’uranio necessario a far funzionare le centrali è una risorsa limitata, e quindi è oggetto di conflitti. Senza parlare dei costi esorbitanti per la costruzione e la manutenzione delle centrali. Eppure, secondo l’ultimo rapporto della Iea (International energy agency) e della Nea (Nuclear energy agency) che operano entro la cornice dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, entro il 2050 l’energia nucleare cinese potrebbe rappresentare il 27 per cento dell’energia nucleare prodotta nel mondo. E, paradossalmente, la sua produzione potrebbe ridursi proprio dove è nata, cioè nella maggior parte dei Paesi dell’area Ocse. Perché per l’Occidente il nucleare è diventato antieconomico mentre per la Cina è un’opportunità di business? «Ci sono forti differenze di costi tra i reattori nucleari in costruzione in Cina oppure tra quelli che attualmente la Corea del Sud sta realizzando negli Emirati Arabi rispetto ai reattori europei – rileva il professor Luigi De Paoli che insegna Economia dell’energia all’Università Bocconi di Milano –. La sopravvivenza dell’energia nucleare dipende anche dalla sua competitività economica. E, almeno in Europa, tale tecnologia è messa fortemente in discussione. Si è interrotta per così tanti anni la costruzione di centrali nucleari, che si sono persi il know-how e la capacità di gestire, a costi competitivi, progetti così complessi». In tempi non tanto lontani, la Cina potrebbe essere un valido e quasi solitario protagonista della costruzione di impianti nucleari a «prezzi di saldo». E questo sta già avvenendo. «In Inghilterra – prosegue De Paoli – si progettano nuovi reattori. Il primo dovrebbe sorgere nel sito di Hinkley Point, a Bridgwater, nel Somerset. E proprio questa iniziativa vede unite Cina e Francia. I cinesi riescono a lavorare con budget contenuti: minor costo del lavoro e di alcune materie prime; tempi spediti di realizzazione perché non ci sono la burocrazia e le leggi dell’Occidente». Ma c’è anche un’altra questione che è, a un tempo, politica, strategica e di opportunità economica: occorre che qualcuno finanzi la costruzione delle nuove centrali nucleari. E la Cina sa di poter avere un ruolo determinante perché, come aggiunge De Paoli: «essa dispone di notevoli risorse economiche per sostenere la realizzazione di nuovi impianti nel mondo, e poi recuperare gli investimenti proprio grazie al funzionamento dei reattori». Con queste prospettive, si finirebbe per consegnare alla Cina il «telecomando» che controlla il mercato mondiale sia degli idrocarburi sia dell’approvvigionamento di energia. Una minaccia incombente L’atomo è anche un’arma di sterminio. L’autorevole Sipri, l’Istituto internazionale con sede a Stoccolma, in Svezia, che si occupa di monitorare conflitti, controllo degli armamenti e disarmo, stima che attualmente vi siano nel mondo circa 16 mila ordigni nucleari, 4.300 dei quali piazzati sui missili o dispiegati presso basi con forze militari operative. Circa 1.800 ordigni sono mantenuti in stato di allerta operativa, cioè possono essere impiegati molto velocemente. Anche se il numero di testate, rispetto al passato, è stato parzialmente ridotto in seguito agli accordi di disarmo tra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica, l’attuale arsenale mondiale ha un potenziale distruttivo in grado di spazzare via svariate volte il genere umano (e non solo) dalla faccia della Terra, e tale da renderla inospitale per migliaia di anni. Le attuali bombe all’idrogeno sono, in realtà, molto più potenti e devastanti di quelle atomiche.
A disporre di armi nucleari «censite» sono ufficialmente nove Paesi: le due superpotenze Stati Uniti e Russia che, da sole, ne detengono circa 15 mila; e poi Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord. Ma Israele, India e Pakistan non hanno sottoscritto il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Quindi non possiamo sapere con certezza quante ne abbiano effettivamente o di quante si potranno dotare. La Corea del Nord si è invece ritirata dal Trattato, e i suoi periodici test sono sotto gli occhi di tutti. Le testate nucleari sono montate anche su missili balistici intercontinentali che possono coprire lunghissime distanze, con una gittata superiore ai 5.500 chilometri. Sono dislocate a bordo di sottomarini, come nel caso della Gran Bretagna e della Francia. Ci sono missili a medio o corto raggio. Quelli tattici possono essere utilizzati anche con rampe mobili stradali. Gli ordigni possono essere trasportati e sganciati anche da aerei da bombardamento, a lungo o corto raggio.
A preoccupare gli esperti e gli strateghi militari è l’instabilità geo-politica del mondo contemporaneo che accresce i rischi di conflitti locali che potrebbero degenerare in escalation imprevedibili e incontrollabili. Ma si nutrono dubbi anche sulle condizioni di sicurezza con le quali viene gestito lo stoccaggio e la manutenzione delle testate nucleari, e sui sistemi di controllo antimissile. Nel 1983, solo il sangue freddo di un ufficiale dell’Armata Rossa, Stanislav Evgrafovic? Petrov, a cui tutti noi dobbiamo la vita, scongiurò una catastrofe planetaria individuando, appena in tempo, un malfunzionamento dell’apparato satellitare sovietico che aveva rilevato alcuni missili provenienti dagli Stati Uniti, poi rivelatisi inesistenti. Un’altra preoccupazione, sollevata anche dal presidente degli Stati Uniti, Obama, è legata al possibile impiego, da parte di organizzazioni terroristiche o stati canaglia, di «bombe sporche» ovvero ordigni confezionati con tritolo e materiale fissile-nucleare reperibile in qualche discarica in Russia o in Cina. Queste bombe non produrrebbero esplosioni come quelle di Hiroshima o Nagasaki, ma sarebbero in grado di contaminare, con materiale altamente radioattivo, grandi città o vaste aree geografiche, rendendole inabitabili.
INCIDENTINon solo reattori
Sono stati almeno un centinaio i «micro incidenti» accaduti, negli ultimi cinquant’anni, a numerosi reattori nucleari in giro per il mondo. Anche da noi, in Italia. Spesso minimizzati dalle autorità. Ma vanno ricordati anche gli incidenti in ambito medico e militare. Come, per esempio, quello del 1987 a Goi`nia, in Brasile, dove almeno 250 persone furono contaminate, e alcune di esse morirono, per essere venute a contatto con il Cesio 137 estratto dalla capsula di un’apparecchiatura per la radioterapia, rubata in un ospedale abbandonato. Quest’anno ricorrono i cinquant’anni dell’incidente occorso a un bombardiere americano B-52 impegnato in un rifornimento in volo nei cieli della Spagna. L’aereo trasportava quattro bombe termonucleari, cioè all’idrogeno, ognuna delle quali era cento volte più potente dell’atomica sganciata su Hiroshima. Il B-52 precipitò in fiamme a Palomares, un paesino dell’Andalusia. L’incidente provocò la liberazione di materiale radioattivo e un incremento delle morti per cancro nella popolazione locale.
GIANANDREA GAIANILe «atomiche italiane» a Brescia e a Pordenone
L’Italia non produce armi nucleari e non ha voluto centrali nucleari sul proprio territorio. Eppure convive con alcune decine di bombe all’idrogeno concentrate in un raggio di 200 chilometri, in Pianura padana, a Brescia e a Pordenone. Nel vecchio continente, queste bombe dovrebbero essere complessivamente circa 180, con un potenziale distruttivo pari a diverse migliaia di volte quello di Hiroshima. Rientrano nel dispositivo militare di deterrenza della Nato, alleanza di cui l’Italia fa parte. Una strategia che, per settant’anni, ha messo anche il nostro Paese al riparo da un’aggressione esterna. E che ci ha garantito la pace. Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi e Difesa (www.analisidifesa.it), si occupa dal 1988 di questioni storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Opinionista de «Il Sole 24 Ore», «Libero», «Panorama» e «Limes», dal 1999 collabora con l’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia (ISMM), e ha insegnato all’Istituto Superiore dello Stato Maggiore Interforze (ISSMI) a Roma. Msa. Di che bombe si tratta?Gaiani. Sono le B-61. Tra 50 e 60 bombe termonucleari o «bombe H» cioè all’idrogeno. Una parte è dislocata nella base italiana di Ghedi (BS), dove sono custodite in un bunker sotterraneo presidiato da militari americani. E un’altra nella base americana di Aviano (PN). In caso di guerra, possono essere utilizzate, in ambito Nato, con la doppia chiave, come si dice in gergo: gli Stati Uniti ne devono autorizzare l’impiego su aerei da guerra italiani, e l’Italia deve accettare di impiegarle sui propri velivoli; oggi i Tornado, e in futuro gli F-35 con cui l’Italia rimpiazzerà i Tornado. Ci sono altri Paesi in Europa, come Belgio, Olanda e Germania, che ospitano bombe del genere. A cosa serve oggi la Nato, e chi sono i nemici? Il nostro avversario è l’estremismo islamico, che è nemico della Russia così come lo è dell’Occidente, anche se gli anglo-americani nella Nato, sul piano mediatico e della comunicazione, dicono che il nemico è la Russia. In realtà, è una mistificazione. E i Paesi europei che fanno parte della Nato subiscono in silenzio questa mistificazione, sbagliando, perché oggi la Nato non rappresenta più i nostri interessi nazionali, ma quelli degli anglo-americani in Europa. Loro temono che la Russia, che ha molto in comune con l’Europa, crei una saldatura con quest’ultima. Il Pentagono punta sulle armi «chirurgiche». Sono i nuovi ordigni: le mini nukes ovvero bombe atomiche miniaturizzate che servono a distruggere obiettivi parcellizzati, come bunker sotterranei in cui uno Stato canaglia produca, per esempio, armi chimiche. La bomba penetra nel bunker e distrugge tutto quello che trova, evitando la dispersione di agenti chimici o biologici. I LIBRI Pavel Nică,Chernobyl. La tragedia del XX secolo Stampa Alternativa, pagine 122, € 12,00 Emilia Fiandra, Leopoldo Nuti,L’atomica. Scienza, cultura, politica FrancoAngeli, pagine 256, € 32,00 Nicola Armaroli, Vincenzo Balzani,Energia per l’astronave Terra Zanichelli, pagine 288, € 13,00 Dino Zanobetti,Energia nucleare Editrice Esculapio, pagine 330, € 20,00 Luigi De Paoli,L’energia nucleare Il Mulino, pagine 152, € 9,80