Ho paura di sognare
Esiste qualcosa di più affascinante di un essere umano? Siamo un concentrato di paradossi e contraddizioni, di paure e di desideri, di sogni e di frustrazioni. Chi può conoscere il cuore dell’uomo? Con la testa immersa tra le nuvole e le stelle e i piedi impantanati negli intrugli caotici che tratteggiano le nostre giornate. Siamo esseri incompiuti e desideranti; pilotati dai nostri bisogni, alla ricerca costante di appagamento e di una felicità che sembra sempre afferrabile e che poi, inevitabilmente, ci sfugge di mano. Dobbiamo soddisfare i bisogni primari, quelli fisiologici: abbiamo bisogno di nutrirci e di dormire. Ma, subito dopo, il bisogno più pressante che ci caratterizza fin dall’infanzia è quello della sicurezza.
Mendichiamo sicurezza e temiamo la precarietà, per questo abbiamo paura di ciò che è inedito, di ciò che non conosciamo, perché non sappiamo come affrontarlo e gestirlo. In fondo, se ci pensiamo bene, temiamo la morte perché non la conosciamo; perché non siamo mai morti e non ne abbiamo esperienza diretta. Le abitudini ci rassicurano, i percorsi già fatti ci tranquillizzano; le persone conosciute, anche se per noi insignificanti, non ci creano turbamento e questo sembra bastarci. Solitamente non amiamo le sorprese né gli scossoni e quasi ci piacerebbe essere assicurati contro tutti i rischi e tutti i pericoli.
Ma la vita è un viaggio nella precarietà; la vita è cammino; è uscire da se stessi e dal proprio guscio, come Abramo, che si è fidato di una promessa e si è messo in cammino verso l’inedito, verso ciò che non conosceva. Anche Maria, portando nel grembo il frutto di un amore sconosciuto ma accolto, si fida, si alza e cammina in fretta verso Elisabetta per condividere una gioia inaspettata che cambierà per sempre la sua vita e la nostra (Lc 1,39). E quando usciamo dal grembo di nostra madre, dopo nove mesi al calduccio nel liquido amniotico, con la sicurezza totale che la mamma non può allontanarsi da noi, usciamo alla vita urlando e piangendo.
Non è facile partorire se stessi e accettare il rischio di vivere nelle tempeste che talvolta ci sorprendono e ci spaventano. Mi consola che anche gli apostoli abbiano paura quando la tempesta li sorprende sulla barca e il Maestro dorme. Urlano allora: «Maestro, Maestro, siamo perduti!» (Lc 8,24). E Gesù li sgrida perché non hanno fede in lui, lui che c’è anche quando dorme; è presente, talvolta misteriosamente, silenziosamente, ma c’è. Egli è sulla barca della vita, accanto a noi, e ci incoraggia, ci invita a vivere la vita senza paura, senza il bisogno nevrotico e dispendioso di voler tenere tutto sotto controllo, di preoccuparsi di quello che mangeremo o di come ci vestiremo. Avere la fiducia dei gigli del campo e fiorire, risplendere in tutta la nostra bellezza, fidandoci della vita, che è più saggia di noi e sa dove vuole portarci.
Non si vive bene tentando di controllare tutto e cercando spasmodicamente la sicurezza. Penso ai nostri giovani e alla fatica che fanno per impegnarsi in un progetto di vita perché hanno paura di non farcela e, talvolta, rinunciano a sognare, a prendere il volo, ad addentrarsi nel cuore della vita e, per dirla con il filosofo Henry D. Thoreau, a «succhiarne tutto il midollo», accontentandosi di dare una leccatina alla corteccia e coartando il desiderio, che è proprio ciò che rende la vita viva e degna di essere vissuta. Eppure c’è una promessa, una parola che mi accompagna fin dalla giovinezza e che risuona al mio cuore tutte le volte che la paura mi fa sobbalzare e che sono tentato di abbandonare i miei sogni e di frustrare il mio desiderio: «Non ricordate più le cose passate, / non pensate più alle cose antiche! / Ecco, io faccio una cosa nuova: / proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? / Aprirò anche nel deserto una strada, / immetterò fiumi nella steppa» (Isaia 43,18-19).
Non c’è niente di più radicale nel cristianesimo della novità del cambiamento. La vita germoglia continuamente, la notte viene rischiarata dall’aurora e l’inverno porta già con sé la primavera nel cuore. Allora «perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). Chi di noi ha scordato le immagini di papa Francesco, solo sul sagrato di San Pietro, in quel 27 marzo del 2020, ma fiducioso, mentre pronunciava parole di speranza: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità» (papa Francesco, Roma, 27 marzo 2020). Nonostante le tempeste della vita, questo uomo, anziano di anni ma giovanissimo di spirito, non ha mai cessato e non cessa di ricordarci di non lasciarci rubare la speranza, di continuare a sognare e di essere all’altezza del nostro desiderio. I sogni sono la misura dei nostri desideri.
Emmanuel Mounier, un filosofo che ho amato molto nella mia giovinezza, scriveva questa cosa meravigliosa: «Quando gli uomini smettono di sognare cattedrali non sanno più nemmeno costruire soffitte». Quando l’uomo smette di sognare, tradisce il proprio desiderio e diventa cinico. Senza sogni la vita è piatta, senza desideri si blocca, senza immaginazione diviene il rendiconto di un contabile, il quale strappa i fogli ingialliti dal calendario dell’esistenza. La nostra ricchezza più grande è la capacità di immaginare, una ricchezza che nessuno può toglierci, e quello che vogliamo realizzare nella vita, per quanto impervio e faticoso, lo dobbiamo prima immaginare e sognare. Solo così la vita si squaderna e si apre all’inedito, ridonandoci il gusto della scoperta, l’ebbrezza dell’avventura, la forza di alzarci al mattino per affrontare ciò che è lì ad attenderci e che chiede solo di essere vissuto. Ce lo confermano anche le recenti acquisizioni delle neuroscienze: il cervello prima immagina e poi realizza. Facciamo attenzione allora a come immaginiamo, a come pensiamo la nostra vita; se vogliamo rendere migliore la nostra vita dobbiamo prima rendere migliori i pensieri che abbiamo sulla nostra vita.
Eppure, talvolta diventiamo così esperti a rovinarcela con le nostre mani, la nostra vita: pianifichiamo il peggio, pensiamo a quello che potrebbe andare storto e poi lo applichiamo alla perfezione. In fondo, non c’è incubo peggiore che vivere il sogno di qualcun altro. Coraggio, allora, in piedi, fiduciosi che il cammino si apre solo camminando e che si diventa vecchi non per gli acciacchi degli anni, ma quando i rimpianti superano i sogni. La vita è il dono più grande che Dio ci ha fatto; il modo in cui la viviamo è il dono che noi facciamo a lui. Facciamo in modo che sia un dono fantastico.
Puoi leggere l'articolo completo, con un approfondimento di fra Massimiliano Patassini su Pier Giorgio Frassati, nel numero di maggio del «Messaggero di sant'Antonio». Prova subito la versione digitale!