Ho paura che di me non resti traccia
Che traccia lasceremo del nostro passaggio sulla terra? Me lo chiedo sempre più spesso, adesso che l’età avanza e non mi rimane tanto tempo. Sarò stato fecondo? Avrò asciugato qualche lacrima? Avrò dato un po’ di gioia a qualcuno? Che cosa rimarrà di me e di te, dopo la morte? Per che cosa saremo ricordati o dimenticati? Voglio condividere con chi mi legge alcune suggestioni di un filosofo americano che apprezzo molto: «Lasciare il mondo un poco migliore, / Che sia un bambino sano, / Un giardino fiorito / Una situazione di degrado riscattata. / Sapere che almeno una vita ha avuto un respiro più facile / Perché c’eri tu. / Questo è avere successo» (Ralph Waldo Emerson). Non ho mai cercato il successo per avere onori o soldi. Forse ho avuto una presunzione ancora più grande: sapere che almeno una vita ha avuto un respiro più facile, perché c’ero io. Ci sono riuscito? Ho avuto successo? Per me il successo non è altro che il participio passato del verbo «succedere». Ogni volta che fai accadere qualcosa di bello, che fai fiorire il giardino nella vita di un altro essere umano, hai avuto successo.
In ogni uomo, anche nel più devastato e sfiorito, c’è un frammento di Dio; in ogni vita, per quanto sfigurata dal peccato o dal dolore, c’è luce e bellezza. Siamo chiamati a essere fecondi, a dare fiori e frutti: solo così risplende la vita, solo così risorge dalle ceneri dell’insignificanza. È il percorso mistico che ha generato questa consapevolezza graduale e impressionante nella esperienza breve e intensa di Etty Hillesum: «Dare fiori e frutti in ciascun terreno nel quale ci si trovi piantati, non può essere questa l’intenzione? E non dovremmo collaborare perché questa intenzione si realizzi?». Ma per fiorire e dare frutti occorre uscire dalla prigione del nostro ego, uscire dalla schiavitù di se stessi e accogliere, con gioiosa meraviglia, il dono della vita: «Il punto di arrivo di tutto è la fecondità, cioè la vita altrui: che qualcuno esista a causa tua, che qualcuno cresca a causa tua, che qualcuno sia felice a causa tua. Questa è la fecondità. Questa è la domanda ultima, quella che mi farò prima di morire: ho dato la vita per qualcuno? Ho dato felicità vera a qualcuno? Quella mi inchioderà, mi dirà la verità della mia esistenza» (F. Rosini). Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodire la vita e proteggerla.
Un salmo bellissimo dice: «Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi» (Sal 91,15). Ho passato ormai da un pezzo i 50 anni; sapete che cosa mi fa più paura in questo momento della mia vita? Forse anche più della malattia e della morte? L’infecondità, che la mia vita non lasci traccia del mio passaggio su questo meraviglioso pianeta, che non sia servita a nessuno, che non abbia portato un po’ di gioia, di bellezza, di amore a qualcuno. Invecchiando cominci a interrogarti su quello che hai fatto o non hai fatto e ti accorgi che devi fare i conti con i rimorsi e, soprattutto, con i rimpianti. Non c’è cosa più triste e deprimente che arrivare alla fine della vita e accorgersi di non aver vissuto, non essere stati davvero se stessi, essere stati prigionieri del sogno di qualcun altro.
Un mio vecchio insegnante, che mi ha introdotto al gusto dei classici e della filosofia greca, ormai avanti negli anni, rivolgendosi a quell’adolescente sognatore e sconclusionato che ero, mi ammoniva: «Vivi la vita con intensità, fai la vita che sei chiamato a fare, senza curarti del giudizio degli altri, cerca di realizzare i tuoi sogni e soprattutto ricordati che è meglio invecchiare con qualche cicatrice che con troppi rimpianti». Un insegnamento che, alle soglie ormai della senilità, porto ancora con me come un dono prezioso. Non c’è cosa peggiore che seppellire il talento per paura, che rinunciare ai propri sogni per convenienza o pigrizia, che disarmare il cuore per paura d’amare. Il rimpianto, in fondo, cos’è se non portare addosso tutte le ferite delle battaglie che abbiamo evitato? Allora aveva ragione il mio vecchio professore: meglio qualche cicatrice; sarà antiestetica forse, ma non devastante quanto una vita meschina, avvilente, sfiorita.
Ognuno di noi è unico e irripetibile: non ci sarà mai più al mondo un altro essere umano come me, come te. Siamo chiamati, come avrebbe detto l’antico poeta Pindaro, a diventare sempre più noi stessi, a portare a compimento la nostra umanità, a lasciare tracce di vita secondo quanto inscritto nella nostra natura, con creatività e con amore per la vita. In un bell’apologo chassidico si racconta che Rabbi Sussja abbia detto in punto di morte: «Nel mondo futuro non mi si chiederà: “Perché non sei stato Mosè?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”». Occorre sforzo per partorire se stessi, per venire davvero alla luce, uscendo dalla penombra della mediocrità. Bisogna esercitarsi con disciplina e allenarsi per diventare uomini e donne migliori: imparare la disciplina del togliere ciò che è grezzo e potare ciò che è superfluo. Questo percorso richiede attenzione ai nostri pensieri, perché i nostri pensieri non inquinino le emozioni e il desiderio. Il desiderio mortificato annichilisce la vita e la blocca. Coltivare il desiderio, che è ciò che rende viva la vita, è abitare le domande che aiutano il desiderio a puntare oltre.
Credo che siamo arrivati a un bivio della storia che ci obbliga a scegliere da che parte stare: tra quelli che scelgono il nulla di senso o il senso del tutto; tra quelli che credono che nulla abbia senso o quelli che intravedono un senso in ogni parola, in ogni gesto, in ogni accadimento quotidiano. I seguaci del nulla sembrano più numerosi; di fatto siamo sommersi da forme di nichilismo pratico e accidioso che propaga un veleno molto contagioso: il veleno della insensatezza, dell’impotenza e del cinismo. Ogni giorno ci vengono somministrate flebo di nichilismo con questi veleni mortiferi. E se non vogliamo che questi veleni rendano sterile la nostra vita dobbiamo necessariamente imparare a farci domande potenti, capaci cioè di innescare un cambiamento vero e fruttuoso.
Per chi viviamo? Che cosa conta davvero per noi? Che cosa ci sta davvero a cuore? Un grande educatore della mia terra, don Lorenzo Milani, aveva fatto scrivere in un cartello affisso sulla parete della scuola di Barbiana: «I care», mi sta a cuore, mi preme, che è l’esatto contrario, come diceva lui, del motto fascista «me ne frego». Se ciò che vive intorno a me non mi preme, se l’indifferenza e il cinismo prevalgono sull’interesse e sulla cura, la stagnazione non può che avere la meglio sulla fecondità. Come ci ricorda il grande psicologo dello sviluppo Erik Erickson, se non si è fecondi si ristagna e la propria vita si deprime e si scolora. Fecondi, cioè felici! Forse non tutti sanno che l’aggettivo latino felix, cioè felice, contento, ha la stessa radice di fecundus, fertile, ricco di messi e di frutti. Come a dire: si è davvero felici quando si è fecondi, quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi ed è fertile per qualcun altro.
Puoi leggere l'articolo, completo di un approfondimento di fra Massimiliano Patassini su Carlo Acutis, nel numero di settembre del «Messaggero di sant'Antonio». Prova la versione digitale!