La scuola al tempo del digitale
Il 2022, a cavallo di due anni scolastici, per il liceo scientifico Pier Paolo Pasolini di Potenza è stato un tempo speciale. Si celebravano i 100 anni dalla nascita del poliedrico e controverso intellettuale, di cui il liceo porta il nome. Un’occasione difficile ma unica per immergersi nella realtà degli anni in cui Pasolini aveva vissuto e per entrare in alcune delle sfaccettature di quell’uomo complesso, che aveva intravisto con grande lucidità alcuni tratti della società contemporanea. E poi c’era la coda della pandemia da covid, durante la quale la scuola era comunque andata avanti utilizzando la didattica a distanza (DAD), come nel resto d’Italia. Ma per gli studenti del liceo Pasolini quel biennio scolastico così atipico è diventato una palestra di sperimentazione, grazie alla lungimiranza della dirigente del liceo, la professoressa Tiziana Brindisi: «Le tecnologie sono parte integrante della vita degli studenti e la scuola non può più prescindere da esse, non può più tornare indietro».
La dirigente Brindisi proprio dal Sud, in genere rappresentato come il fanalino di coda del Paese, ha colto la sfida di cambiare la didattica nel segno della tecnologia, mettendo al centro gli studenti e valorizzando il ruolo di guida dei loro insegnanti. «Non ha più senso che lo studente impari una serie infinita di nozioni – spiega la dirigente –. I saperi, come le tecnologie, si espandono velocemente e continuamente, la scuola non riuscirebbe mai a coprirli. In quest’epoca, la scuola deve invece fare un altro lavoro: accompagnare il processo di apprendimento; lo studente deve innanzitutto “imparare a imparare”, deve saper raggiungere, selezionare, rielaborare i contenuti che davvero contano nel caos della Rete, allenando alcune competenze, ma soprattutto lo spirito critico, indispensabile per diventare cittadine e cittadini di questo tempo».
Il digitale dove lo metto?
C’è bisogno di una scuola nuova, dunque, che faccia i conti con le tecnologie digitali: ma, in concreto, che cosa significa? È sufficiente inserire la materia delle tecnologie digitali tra i programmi? Il digitale dev’essere trasversale a tutti i saperi? Oppure bisogna rivoluzionare il modo di fare scuola? Insomma, in che cosa consiste l’educazione digitale?
«Comincerei col dire che l’educazione digitale non esiste – afferma provocatoriamente Pier Cesare Rivoltella, professore di didattica e tecnologie dell’istruzione all’Università cattolica di Milano –. Preferisco parlare di educazione al tempo del digitale». Per capire che cosa ciò significhi, è importante delineare il contesto in cui si trova la scuola oggi. La tecnologia non è mai neutra, cambia il modo di vivere, di comunicare e quindi anche di insegnare e di imparare. Luciano Floridi, filosofo e grande esperto di digitale, ha spiegato che la storia dell’umanità è segnata da tre grandi fasi nel modo di trasmettere il sapere. La prima fase è quella della «preistoria», caratterizzata dalla trasmissione orale, dove il sapere era per pochi, nelle mani del maestro e del suo discepolo; la seconda fase, quella della «storia», inizia con l’avvento della scrittura e culmina con l’invenzione della stampa che ha reso più accessibile il sapere a tutti, e ha fissato un modello di trasmissione della conoscenza che ha al centro i libri, i banchi, la lezione frontale, l’autorità del maestro, la divisione dei saperi, i voti. Un modello secolare, divenuto ormai automatico, che è arrivato fino ai giorni nostri.
Tuttavia c’è una terza fase, che Floridi chiama «iperstoria» ed è quella che stiamo vivendo, caratterizzata dall’avvento di internet, dove gli esseri umani sono sempre più inseriti in una rete di informazioni, di dati, di stimoli che rendono difficile distinguere la vita fuori (offline) da quella dentro la Rete (online); anzi, di più, siamo ormai costantemente collegati, tanto che la nostra vita è «on life», una vita, cioè, indistinguibile dalla sfera digitale – basti pensare all’uso invasivo che facciamo dei nostri cellulari –. Ciò cambia totalmente la visione del mondo, i mezzi con cui entriamo in relazione e, soprattutto, il modo di apprendere. Può la scuola che aveva al centro la carta essere oggi la scuola che ha al centro internet? Questa è la grande questione della scuola di oggi. Tuttavia colmare questa sfasatura nella storia dell’apprendimento non è immediato né facile. Le resistenze sono fortissime e nessuno ha una ricetta pronta.
In presenza ma contemporanea
Sono i ragazzi stessi a suggerire la direzione, come rivela l’ultima ricerca sugli adolescenti dell’Istituto IARD e del Laboratorio adolescenza: mentre la scuola ha cercato di seppellire in fretta la DAD, vivendola solo come un ripiego per continuare le lezioni tradizionali, l’80,7 per cento dei ragazzi ritiene che la scuola debba essere in presenza, ma utilizzando il meglio degli strumenti e delle esperienze digitali fatte durante la pandemia. Ovvero vogliono guide, maestri, adulti significativi che stiano accanto a loro, ma al contempo vogliono anche una scuola all’altezza dei tempi, che non abbia paura di cambiare.
Per quanto contraddittorio possa sembrare a prima vista, per Rivoltella la scuola al tempo del digitale ha un nucleo antico e delle modalità tutte da reinventare. «La vera scuola è ancora quella di don Milani – chiarisce –, il quale si chiedeva che cosa potesse essere utile e buono da insegnare ai suoi ragazzi, per farli diventare membri attivi della società e persone consapevoli e realizzate. Lo scopo della scuola sarà sempre questo. Ma lo farà in modo ogni volta diverso, seguendo i tempi, mettendo al centro il bene dei ragazzi e della società». Secondo Rivoltella, la scuola ha il dovere di essere contemporanea: «Deve avere la capacità di fornire agli studenti le chiavi di accesso al loro mondo, non al nostro. E ciò possiamo farlo solo se ci sforziamo di conoscere questo mondo e i suoi linguaggi. Il che non significa rinunciare alla cultura o alla tradizione, ma rideclinarle nei nuovi linguaggi».
I nuovi alfabeti
La reazione più diffusa della scuola di fronte a questa richiesta di nuovo è chiudersi a riccio nella tradizione, cosa che rassicura. Ma ci sono anche tante scuole che stanno sperimentando, seguendo come possono le linee guida internazionali, secondo le quali l’educazione al tempo del digitale deve fare i conti con tre tipi di literacy, ovvero di alfabetizzazione. Innanzitutto con l’information literacy, ovvero con i modi di approvvigionarsi dell’informazione, di raggiungerla attraverso internet, di riconoscerla attendibile e renderla ricercabile e condivisibile. Deve fare i conti con i dati che noi lasciamo nelle piattaforme ogni volta che ci colleghiamo, sapendo chi li possiede e come vengono utilizzati (data literacy). Infine la scuola di oggi deve fare i conti con l’intelligenza artificiale, con i vantaggi e i rischi che essa comporta (artificial intelligence literacy).
«In sintesi – afferma Rivoltella – la nuova educazione deve far conoscere i linguaggi, sviluppare il pensiero critico, aiutare a gestire le responsabilità collegate alle nuove tecnologie». Per esempio, non a tutti è chiaro che pubblicare un contenuto o una foto sui social è una responsabilità, esattamente come lo sarebbe per un giornalista che scrive in un giornale. La Rete conserva tutto, per cui pubblicare un contenuto falso o razzista o una foto compromettente può danneggiare le persone, procurare guai giudiziari o addirittura pregiudicare la possibilità di entrare in un posto di lavoro, magari dieci anni dopo. Ciò che è digitale diventa reale e ciò che è reale diventa digitale. È una realtà che la scuola non può più ignorare.
L’indagine IARD coglie un’altra esigenza dei ragazzi al tempo della scuola digitale: l’86,6 per cento degli studenti delle scuole superiori vorrebbe un piano di studi in parte personalizzato con alcune materie scelte dal singolo studente e una scuola «meno ingessata», più vicina agli interessi dei più giovani. Questo bisogno di personalizzazione, al di là delle singole inclinazioni, è, secondo Rivoltella, innanzitutto un bisogno di senso, rispetto alla propria vita e al proprio futuro: «Non siamo più capaci come adulti e come educatori di orientare i ragazzi, di aiutarli a individuare i loro bisogni più profondi, a identificare le cose che contano, partendo dalle singole situazioni. E ciò è ancora più grave oggi, rispetto a quando eravamo ragazzi noi, perché il contesto in cui vivono gli studenti di oggi è disorientante e complesso. Ecco perché dico che la scuola al tempo del digitale si può fare anche senza il digitale. La prima sfida che pone il digitale è, infatti, quella di ritrovare i fondamenti dell’educazione; il come viene dopo».
A misura di studente
Mettere al centro studenti e studentesse non significa far fare loro quello che vogliono, ma far emergere i talenti e le potenzialità, avendo presente il contesto di oggi, i problemi e le risorse a cui attingere, per pensare il futuro insieme a loro. Un processo in cui la figura dell’insegnante è fondamentale: «Nella complessità in cui viviamo oggi servono insegnanti carismatici, esemplari, delle vere e proprie guide di vita – chiarisce Rivoltella –. Se sei umanamente un fantoccio, i ragazzi ti scoprono in 5 minuti. Ogni insegnante deve avere alla base la passione per l’essere umano, la consapevolezza di fare il mestiere più bello e più importante del mondo».
Mettere al centro gli studenti significa anche considerare i profondi cambiamenti sociali e culturali avvenuti negli ultimi decenni: «Siamo di fronte a una generazione che non è abituata a fare i conti con il limite – spiega Rivoltella –, ma non è colpa dei ragazzi, è frutto dell’educazione della famiglia affettiva, che tende, al contrario di quella di una volta, ad assecondare i desideri, piuttosto che a imporre regole. E questo incide anche sulla scuola». L’altro grande cambiamento, legato anche alle tecnologie, è che l’attenzione è diventata merce rara: «In una società dove tutto è veloce, l’attenzione si è ridotta drasticamente: inutile richiedere agli allievi ore di ascolto, quando dopo 7 minuti quasi nessuno riesce più a seguire, forse neppure gli adulti». Nel progettare la didattica, quindi, bisogna tenere in conto anche tutti questi aspetti, che non sono secondari.
Un esempio concreto di che cosa può significare una scuola a misura di studente nell’era digitale lo dà Tiziana Brindisi, riportando un esperimento fatto all’IIS Ettore Majorana di Genzano di Lucania, nel suo precedente incarico: «Per contemperare le diverse esigenze, abbiamo ridotto la durata della lezione a 50 minuti, recuperando così un tempo che sfruttavamo a metà mattinata. Chi aveva bisogno di un corso di recupero entrava in una classe verticale con compagni, provenienti da altre classi, mentre per gli altri organizzavamo corsi di approfondimento o di altre discipline, una lingua, uno strumento, anche questi condivisi con altre classi». Le classi, quindi, si smembravano e si ricompattavano a seconda delle esigenze e degli interessi. La flessibilità al tempo del digitale è una caratteristica imprescindibile. «La scuola – continua Brindisi – dovrebbe essere un continuo programmare e riprogrammare: lo spazio, i tempi, i contenuti».
L’inefficacia della politica
La nuova scuola è una scuola in cammino, che rimette gli insegnanti continuamente in gioco. Ma le scuole che hanno accettato la sfida sono sufficientemente supportate a livello centrale? Hanno i mezzi, gli spazi, i tempi, l’aggiornamento professionale di cui hanno bisogno? Tiziana Brindisi punta il dito soprattutto contro l’eccessiva burocratizzazione: «Siamo pieni di adempimenti e spesso non c’è il tempo per pensare ad altro. Ciò che sogno per il nostro lavoro è avere spazi più dilatati da dedicare all’analisi delle necessità e alla programmazione, e invece siamo sempre di corsa, sempre all’ultimo minuto, a rincorrere l’ultimo adempimento, rischiando di perdere di vista i ragazzi, che dovrebbero invece essere al centro della nostra attenzione. Poi, ovviamente, c’è bisogno anche dei mezzi e della formazione. Senza investimenti non si va da nessuna parte».
Rivoltella è ancora più drastico: «La scuola non interessa a nessuno nel nostro Paese – afferma – . Basta guardare ai punti di Pil che spendiamo in istruzione. Ogni volta che la politica partorisce le cosiddette “riforme”, non tiene in alcuna considerazione quelli che di scuola se ne intendono. Ma una politica educativa che non ascolta la ricerca difficilmente è efficace. Si preferisce privilegiare altre logiche».
Mettersi in gioco
Eppure la scuola, soprattutto in questi tempi complessi e confusi, rimane un baluardo importante per aiutare i ragazzi a orientarsi, a capire, a scegliere consapevolmente. Ogni scuola che tenta nuove strade, pur tra mille difficoltà, contribuisce a costruire la società di domani. Intanto al Liceo Pasolini – così come in tante scuole lungo lo Stivale e le sue isole – c’è chi continua a portare avanti prove tecniche di scuola al tempo del digitale. In particolare, al liceo di Potenza, il centenario pasoliniano ha prodotto frutti inattesi. Gli insegnanti avevano proposto agli studenti vari aspetti della figura di Pasolini, a seconda dell’età dei ragazzi, lasciando a loro la scelta di contenuto e mezzi.
Il risultato è stato eccezionale: «I più piccoli hanno affrontato la figura di Pasolini come allenatore e appassionato di calcio – racconta Tiziana Brindisi –; i più grandi l’hanno inquadrato in una prospettiva interdisciplinare. Per esempio, un gruppo ha utilizzato matematica e urbanistica per fare un lavoro sulle città, comparando la pianta di Gerusalemme con quella di Matera, set del film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo. Un altro gruppo ha messo a confronto le poesie dialettali di Pasolini con quelle dei poeti locali». I mezzi sono stati i più svariati: video, giochi interattivi, graphic novel. «Alcuni lavori erano notevoli – commenta la dirigente – , ma la cosa più bella è stata che i ragazzi si sono sentiti coinvolti, capiti, riuniti in un progetto comune, capaci di collaborare e di creare valore. In grado, soprattutto, di esprimersi e di imparare dal passato ciò che serve per il futuro».
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