Taranto?
A metà mattina, mentre attraverso il ponte che collega l’isola della Città Vecchia di Taranto a Porta Napoli e guardo verso la bellezza del mar Piccolo, mi arriva un allarme sul cellulare: picco di benzene. D’istinto cerco di non respirare e subito dopo mi rendo conto della inutilità del mio tentativo di salvarmi. Io domani sarò lontano da qui. Via da una città che ho imparato ad amare, via dal suo mare, dal suo centro storico così bello, così abbandonato, così «corroso», scriveva Alessandro Leogrande. Così contradditorio e vivo. Sarò lontano dalla centralina di Tamburi che rileva l’inquinamento dell’aria. Via dalla Fabbrica, l’ex-Ilva, che, da sessanta anni, decide della vita e della morte della terza città del Sud italiano.
Ogni volta che torno nel centro di Taranto trovo un nuovo albergo, un nuovo B&B, un nuovo caffè. Vorrei trovare anche nuovi abitanti tra i vicoli della Città Vecchia. Vedo nuove crepe e nuovi restauri. Vedo demolizioni e possibili ricostruzioni. Mi sorprende sempre la vitalità ostinata di questa città. A pranzo, mangio tubetti con le cozze. A cena, riso, patate e cozze. La perfezione del mar Grande, le navi mercantili in attesa, le porta contaneir, le gru del porto, le ciminiere. Tutto, sporgendomi appena da un balconcino. Per fortuna, ho dietro le spalle (e così dalla mia finestra non le vedo) altre ciminiere, altri camini industriali, le cokerie o la gigantesca copertura dei «parchi minerari». A sera, in pieno inverno, una ragazza, avvolta nelle sciarpe per proteggersi da una tramontana tagliente, canta in un bar all’aperto in via Duomo, strada-vicolo centrale di Città Vecchia.
Riguardo lo schermo del telefono, non so tradurre i numeri dell’allarme che mi ha raggiunto. So che i livelli di benzene, un composto chimico cancerogeno, responsabile di leucemie infantili, prodotto dalla Fabbrica, negli ultimi otto anni, sono aumentati. Più 15% nel 2023 rispetto all’anno precedente. Le polveri sottili sono cresciute del 22%. Nonostante la produzione di acciaio sia, oramai, ridotta al minimo. «Si sono inventati una parola che non esiste: ambientalizzazione – mi dice Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, associazione che da oltre trent’anni si batte per la pace e l’ambiente –. È stata inventata per camuffare quanto accadeva dentro l’Ilva». Qui, nei quartieri attorno alla Fabbrica, è stata trovata diossina nel latte materno. La «loro» ambientalizzazione è fallita. La produzione di acciaio a Taranto, negli ultimi anni, ha continuato a inquinare, ad avvelenare.
Nel 2021, dopo un processo durato cinque anni, 47 imputati (di cui tre sono società) sono stati condannati, in primo grado, a pene che vanno fino a ventidue anni di carcere. Sono stati ritenuti colpevoli del disastro ambientale e sanitario causato dall’inquinamento provocato dalla Fabbrica. La corte, tre anni fa, emise condanne per quasi trecento anni. Gli impianti del complesso siderurgico sono tutt’ora sotto sequestro. Ci sono 3700 pagine di motivazioni dietro questa sentenza. Ad aprile ci sarà l’appello.
La catastrofe ambientale si salda una volta di più con il dissesto economico. In questi giorni, le imprese dell’indotto (trasportatori, fornitori di materie prime, di servizi, di manutenzione) stanno protestando con durezza («Bruceremo i nostri camion, bruceremo le portinerie»): reclamano crediti per 120 milioni di euro. Questa è disperazione sociale. Sono oltre 2000 persone (altre fonti parlano di 3500). Mentre 8000 operai sono sempre sull’altalena di un lavoro intermittente e pericoloso. Altri, oltre 2000, sono da tempo in cassa integrazione. Si parla di debiti per un miliardo e 400 milioni. Il commissariamento dell’ex-Ilva è alle porte, come se il ritorno dello Stato risolvesse la tragedia del benzene. Il destino della Fabbrica appare segnato. La città, finalmente, sembra essersene resa conto. Ascolto Michele Riondino, regista (il suo film, Palazzina Laf, racconta delle acciaierie) e attore, dire cose sagge: «Questa città non vuole più scegliere fra salute o lavoro. Pretende lavoro e salute». «Prima della fuga», sperano ancora in molti. Così si chiamava una coraggiosa azione teatrale andata in scena (per strada) due anni fa. Troppi ragazzi se ne vogliono andare da Taranto.
Ogni volta che torno a Taranto, salgo al quartiere Tamburi, il più vicino alla Fabbrica. Le case hanno intonaci aranciati, mi spiegano: «Perché non si noti la polvere di carbone che vi si deposita sopra e ti entra nei polmoni». Vado sempre in due luoghi: alla chiesa di San Leonardo Murialdi (dedicata a un prete che, nella Torino dell’800, si schierò con gli operai) e davanti a un condominio non troppo lontano. Dietro l’altare maggiore vi è un immenso Cristo che, in piedi su svincoli autostradali, benedice le ciminiere della vecchia Italsider davanti a un piccolo gruppo di persone (un marinaio, un operaio, un manager, un muratore, un pescatore, una sola donna con la sporta della spesa). È un mosaico degli anni ’60. Tempi lontani: sono certo che Cristo oggi, con le lacrime agli occhi, scenderebbe da quell’altare e dai viadotti e si fermerebbe di fronte alla facciata di una palazzina affaticata di via De Vincentis. Gli abitanti hanno murato una lapide, racchiude la storia di questo quartiere: «Nei giorni di vento nord-nord/ovest veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale “Ilva”. Per tutto questo gli stessi “maledicono” coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare».
(A Taranto, se è possibile, ho una camera in un B&B di Città Vecchia: le sue finestre si aprono sul mar Grande. Amo molto questo luogo, amo molto l’isola che è Città Vecchia, amo molto questo mare. Prego per un futuro per questa città, scelgo una foto dove una barca si riposa al riparo di una piccola scogliera frangiflutti).
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