In pace, con tutti i sensi
Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengono infirmitate et tribulatione. Beati quelli che 'l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati.
Di suor Marzia Ceschia
Dopo aver affidato il servizio della lode alle creature del cielo e della terra, ambasciatrici per l’uomo di un canto per il quale egli – ripiegato sull’illusione dell’autosufficienza – ha perduto le adeguate parole, Francesco comincia a reinserire nella sua partitura la voce umana. È significativo che l’accesso sia dato a «quelli ke perdonano», quasi a sottendere che una presenza armonica, nella sinfonia della creazione, può essere soltanto riconciliata e riconciliante. Il perdono riattiva l’intonazione perduta. La motivazione è allusa nel Cantico ed è essenziale: l’atto del perdonare – radicalmente evangelico (cfr. Mt 18,21-35) – implica il decentramento, il venir meno di ogni autoreferenzialità ed è possibile se l’essere umano accoglie di assumere come dirimente un valore più grande di se stesso, tale da essere più ampio della misura dei propri diritti, dei propri bisogni, delle proprie rivendicazioni e valutazioni.
È ciò a cui Francesco fa riferimento nell’espressione «per lo tuo amore». Potremmo intenderla secondo due sfumature: una più causale, a dire che il perdono accade «a causa» dell’amore del Signore, sulla sua spinta. «L’amore del Cristo infatti ci possiede», afferma san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (2Cor 5,14), sicché «non guardiamo più nessuno alla maniera umana» (2Cor 5,16). È, dunque, nella presa di questo amore che all’essere umano è dato di assumere il punto di vista della misericordia, lo sguardo che il santo assisiate ha sperimentato e riconosciuto nel Signore «che ci ha creati, redenti e ci salverà per sua sola misericordia; lui che ogni bene fece e fa a noi miserevoli e miseri, putridi e fetidi, ingrati e cattivi» (Regola non bollata: FF 69). La seconda sfumatura da mettere in evidenza – e che tuttavia è intrinsecamente connessa a quanto abbiamo appena rilevato – è più «strumentale»: il perdono, cioè, avviene «per mezzo» dell’amore del Signore.
Perdonare, allora, è un atto in qualche modo «sovrumano» o, meglio, è un atto pienamente umano perché coerente con l’immagine di Dio che è l’uomo. Ma è amare, in fondo, che è qualcosa di divino e che oltrepassa le misure, i condizionamenti, i limiti umani, che suscita capacità di relazioni che una logica di vantaggio, di interesse è insufficiente a spiegare. «La virtù di carità è l’esercizio della facoltà di amore soprannaturale», scrive Simone Weil nella Lettera a un religioso. È un atto spirituale e accade per mezzo dello Spirito, che riversa l’amore di Dio nei nostri cuori (cf. Rm 5,5) e ci infonde la sua misura di dono.
Nell’orazione sul Padre nostro, Francesco commenta il versetto «come noi li rimettiamo ai nostri debitori» con un’invocazione: «Fa’ che pienamente perdoniamo, cosicché, per amor tuo, amiamo sinceramente i nemici e devotamente intercediamo per loro presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento in ogni cosa» (FF 273). «In te»: il perdono è la più concreta consonanza con la mentalità di Colui che si è «degnato di morire per amor dell’amor mio» (Absorbeat: FF 277). L’esito è la pace anche nella «infirmitate et tribulatione» sostenute non in un modo arrabbiato, non nella contrapposizione e nella recriminazione.
Lo snodo essenziale, il punto di svolta è, di nuovo, quel «per lo tuo amore». Lo ribadisce il santo nell’Ammonizione XV (FF 164): «Sono veri pacifici coloro che in tutte le cose che sopportano in questo mondo, per l’amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservano la pace nell’anima e nel corpo». Vivere riconciliati significa, dunque, non accomodarsi la realtà in vista del proprio benessere, in una tranquillità costruita facendosi uno spazio confacente ai propri gusti, ma di agire la pace in tutte le situazioni e le relazioni a cui interiormente e corporalmente si è esposti. È importante il riferimento al corpo da parte di Francesco, implicando così la sensibilità, il contatto concreto con le cose che reclamano – tutte – pace e pazienza. In quest’attitudine si diventa «signori», «incoronati», riconosciuti come esponenti del Regno di Dio. Signori perché affini allo stile del Signore!
Il perdono crea equilibrio, rimette ordine dove il torto e la ragione hanno creato fratture e distanze, un terreno sconnesso sul quale tutti quelli che sono coinvolti faticano a camminare. Emblematica a riguardo è la celebre parabola della Perfetta letizia (cf. FF 278): Francesco dinanzi alla porta chiusa del convento di Santa Maria degli Angeli – proprio per lui, il fondatore – sceglie di non regnare secondo la logica del potere, ma di rimanere «signore» dei suoi sentimenti feriti, di abitare l’umiliazione, di non rinunciare ai fratelli, accettando piuttosto di essere un bisognoso per loro e per quell’ «amor di Dio» – ancora! – in nome del quale aveva chiesto accoglienza per una notte: «Io ti dico che, se avrò avuto pazienza e non mi sarò inquietato, in questo è vera letizia e vera virtù e la salvezza dell’anima». In questa letizia si ha sempre voce per lodare. M
L'amore e il dolore
Di Davide Rondoni
È l’amore di Dio che rende gli esseri umani capaci di perdonare. Ed è l’amore di Dio che li fa stare in una vita, che spesso «trebbia» dolorosamente, con la pace nel cuore. La pace di un Abbraccio.
Nel Cantico delle creature, del sole, della luna, delle stelle, del vento, dell’acqua e della terra, insomma nel Cantico che dà voce come antico e nuovo – ma più «sbranato» e dolcissimo – Salmo alle realtà che lodano Dio (cum... per) per il fatto stesso, agli occhi del cieco Francesco, nuovo Omero, di esser create da Lui e non perché buone o cattive nei nostri confronti, ecco, nel cantico dell’Universo è in scena anche l’essere umano. «Quelli», uomini e donne. Come se uno sguardo morente cieco e lucente, che sta comprendendo l’intero universo, vedesse che ci sono anche «quelli», gli esseri umani. Uno sguardo che non fosse umano si stupirebbe, infatti, prima – guardando il nostro piccolo grande mondo –, di fenomeni imponenti come il sole, gli astri, il vento, le acque... e, dopo, di noi, «quelli». I «piccolini», come amava dirsi lui. E dunque, nel mettere in scena gli uomini e le donne, e dovendo sintetizzare qualche loro qualità essenziale, cosi come le stelle son «pretiose et clarite et belle» o l’acqua è utile, umile e casta, Francesco punta su una cosa sorprendente. Attualissima. Micidiale nella sua precisione antropologica e a riguardo della visione del rapporto tra natura umana e natura della creazione. Non dice che Dio è lodabile per «quelli» che sono bravi, intelligenti, belli, capaci, resilienti (come purtroppo si dice oggi) o inclusivi (peggio), e nemmeno che sono santi, perfetti, irreprensibili, e nemmeno senza peccato. No, Dio è lodato cum, per, «quelli ke perdonano».
Il perdono in natura non esiste. Non è un gesto naturale. Eppure è la forma più alta e necessaria di amore umano. In natura non si dà poiché non esistono le sue condizioni: la consapevolezza del bene e del male, e la libertà. L’uomo libero perdona. Non esiste nessuna necessità, nessuna coartazione naturale né nessun ricavo naturale a riguardo dell’atto del perdono. Si fonda sul mistero della libertà umana, entità che non coincide solo con la natura. Né con la macchina. E ripetersi in questa epoca in cui i poteri del mondo vogliono ridurre le persone a pensarsi come variante di una specie o sostituibile da una macchina, il Cantico del cieco e visionario Francesco, poeta e santo, ci ricorda che siamo abitati da qualcosa che ci rende diversi dai carciofi e dalle macchine. «Quelli» non sono come le altre creature. Non dice meglio o peggio, non dice centrali o no, non usa prosopopea antropocentrica, come si direbbe oggi. Ma «quelli» fanno una cosa che nessun altro essere creato fa.
Forse è uno dei motivi principali per rileggere e rileggere ancora il Cantico ai ragazzi e alle ragazze. Uno dei colpi di genio maggiori di Francesco poeta e santo. L’essere umano è nel mondo ma non è solo del mondo. È una umile e potente difesa antropologica, centrale per l’oggi. In questi anni abbiamo fin troppo sentito parlare di «natura». Ma la natura era un concetto problematico nell’antichità a cui ancora appartiene lo sguardo di Francesco. Era, la cosiddetta «natura», questione filosofica e non una «cosa» da conoscere attraverso strumenti scientifici. Del resto, siamo noi esseri umani a porci il «problema natura», certo non se lo pongono le carpe o le nuvole, né le bietole né i castori. E pertanto sarebbe un problema (oltre che una mole di conoscenze che ne svelano i segreti ma non il mistero) legato al più generale problema della vita umana, ovvero il suo senso. Intendo che senza una corrispondente acuta riflessione su che cosa intendiamo per natura umana, qualsiasi discorso sulla «natura» risulta confuso.
Non a caso, un poeta più francescano di quanto ci venga presentato dagli orridi programmi scolastici, e intendo Leopardi, che raccomandava di essere «mendico», mendicante, povero, dinanzi al mistero della Natura, nel suo meraviglioso Canto notturno del pastore errante nell’Asia alza la domanda a cui la cosiddetta modernità non sa rispondere: «E io che sono?». Senza rispondere adeguatamente a tale domanda, ogni discorso sulla natura, appunto, risulta banale e fuorviante. E, infatti, il poeta santo ormai disfatto, che tanto aveva perdonato e chiesto perdono, introduce nel Cantico sulle creature un elemento fondamentale, un a fondo sulla natura umana capace di perdono. Cioè di libertà. È, come avrebbe detto Montale, «lo sbaglio di natura», «l’anello che non tiene», sfuggente alla pura necessità. E poiché Francesco sa che la natura umana libera è abitata da una forza potente ma anche da una fragilità ricorrente, aggiunge che tale capacità di perdono è «per lo tuo amore», cosi come la forza di sopportare infermità e tribolazione.
Il termine «tribolazione» viene dall’atto di trebbiare. La vita, sapeva il quasi morente poeta, è anche una trebbiatrice. Occorre la presenza di un Amore grande per stare sotto la trebbiatrice. Per avere «pace». Il che non significa fingere di non patire, o chiamare il dolore con nomi dolciastri o fuorvianti, come a volte fa anche il clero, ma la pace di chi sta in un Abbraccio. E io voglio vedere proprio così, come dice lui «incoronati», mio padre, i miei nonni, i miei molti amici che han tanto sofferto... Non meno che «incoronati», se no Dio può anche andare a quel paese. Francesco conosce la vita trebbiatrice. E questo rende il suo canto finale non solo intelligente e bello, ma intenso, umanissimo, vero.
Breve canto della Bassa
Il grigio intorpidisce i mogi
genuflessi sui campi arati, freddi
la galaverna ferma il movimento
orizzontale dei corpi sopiti.
Uno prega ancora un dono d’atmosfera
l’altro gli chiede – Dove siamo? – Siamo
nella tela piana, nella concordia
sancita con la vanga nella polvere
una vecchia con occhi di cenere
scalza retta alla zanetta, rivede
uno bombardato uno suicidato uno perforato
una vecchia come tante, obliando
una tornata bimba tra le foglie
per vivere saper dire alle figlie
– Essere verticali perdonando.
Stefano Lanzi
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