24 Gennaio 2025

Il saluto di Pepe

Non potremo più incontrare Pepe Mujica, l’ex-guerrigliero che divenne presidente dell’Uruguay. Nel poco tempo che gli resta da vivere, ha chiesto di essere lasciato in pace: «Sono un anziano e me ne vado. Ma sono felice perché ci siete voi giovani».

Il saluto di Pepe

Nel 1985, alla caduta della dittatura militare in Uruguay, Pepe Mujica, uno dei leader del movimento guerrigliero Tupamoros, venne liberato, assieme ai suoi compagni, dopo dodici anni di terribile prigionia. Pepe era stato rinchiuso per nove anni in un pozzo sotterraneo. Aveva sei pallottole in corpo ed era considerato non un prigioniero, ma un rehenes, un ostaggio. Quando furono scarcerati, Pepe e i suoi compagni vollero, prima di riprendersi la vita, ritrovarsi in un convento dei francescani conventuali. Dovevano parlare, parlarsi, dopo anni e anni di silenzio e solitudine. Prima di tornare alle loro famiglie, ai propri quartieri, alle proprie case. E al proprio impegno. Il convento francescano apparve loro il luogo più adatto. I frati li accolsero con generosità. 

Questa è una storia straordinaria, di un piccolo paese latinoamericano, di uomini e donne capaci di giustizia e saggezza. Pepe Mujica, nel 1994, diventerà deputato. Disse: «Mi sento come un fioraio in Parlamento». Coltivare fiori era stato il suo primo mestiere. Nel 2009, l’ex-guerrigliero divenne presidente dell’Uruguay. «Il presidente più povero del mondo». Continuò a vivere in una modesta chacra, la sua piccola fattoria alle porte di Montevideo. Rinunciò al 93% del suo stipendio da capo dello stato. Anche i suoi compagni più vicini di guerriglia e prigiona ebbero ruoli importanti: el Ñato, Eleuterio Fernández Huidobro, divenne ministro della difesa, capo di quei militari che lo avevano incarcerato. Mauricio Rosencof fu assessore alla cultura del municipio di Montevideo. Pepe divenne leggenda senza esserlo. 

Alcuni anni fa sono andato a trovarlo. A Rincón del Cerro, la sua campagna, appena fuori Montevideo. La chacra è una casa piccola, tre stanze, circondata dai fiori, mobili con una essenzialità consumata dal tempo. Libri dovunque, un piccolo tavolo, qualche vecchia poltrona. Lucia, la sua compagna, è in cucina. Sta lavando in piatti. Chiedo se posso aiutarla. Lei mi rassicura: «Compartimos con el Pepe, no te preocupe». Lucia è stata vicepresidente dell’Uruguay. Quando avvenne questo incontro era ancora senatrice. Posso immaginare un presidente europeo che accoglie a casa un giornalista straniero sconosciuto, venuto con i suoi amici per una chiacchierata? Senza nessun controllo della «sicurezza»? Con la moglie senatrice che sta lavando i piatti e il letto in disordine. Quella mattina con Pepe e Lucia è stato uno dei doni della mia vita. 

«La vita es hermosa – mi disse Pepe –. Dobbiamo viverla, è un piccolo frammento di tempo, possiamo lottare per un mondo migliore». Fu il primo presidente latinoamericano a incontrare il Papa poco tempo dopo l’inizio del suo pontificato. Bergoglio disse di lui: «È un uomo saggio». Pepe contraccambiò: «Francesco è come un amico del quartiere». I due uomini, quasi coetanei, oggi sono molto vecchi: Pepe ha 89 anni, Francesco 88. Entrambi hanno a cuore il destino dei giovani: «Non lasciatevi rubare la vita, non lasciatela scappare», dice Pepe ai ragazzi e alle ragazze. «L’essere umano non può vivere in solitudine, non è povero chi possiede poco, ma colui che non ha una comunità attorno a sé». «Per favore – quasi supplica Francesco rivolto ai giovani – non perdete la capacità di sognare, non siate pensionati della vita». Ci sono due parole che i due vecchi amano ripetere: sobrietà e speranza. «La speranza non delude mai, non lasciatevela rubare» dice Francesco, che ha voluto dedicare proprio alla speranza l’anno del Giubileo. E, all’altro capo del mondo, Pepe trova la voce per quasi gridare l’ultimo suo appello: «Bisogna lavorare per la speranza».

Non potremo più incontrare Pepe. Nel poco tempo che gli resta da vivere, ha chiesto di essere lasciato in pace. Ha deciso di interrompere le terapie contro il cancro che lo sta divorando. «Sono un anziano e me ne vado. Ma sono felice perché ci siete voi giovani». Ricorda gli anni della sua oscena prigionia: parlava con gli scarafaggi, non lo poteva fare con nessun altro, lottava per ottenere un pitale e un materasso lurido. Fu grato a una guardia quando, con un gesto minimo e generoso, alzò il volume della cronaca di una partita di calcio. L’Uruguay vinse e i prigionieri per una volta sorrisero. «Scoprii che la felicità è fatta di cose semplici. Se vuoi essere libero devi essere sobrio nei tuoi consumi, devi donarti il tempo, l’unico bene verso il quale dobbiamo essere avari. Certe mattine mi sveglio e rimpiango la mia cella. Nell’oscurità trovai una rivelazione e imparai ad ascoltare il silenzio».

Non so se sia vero, non mi stupirei se lo fosse: c’è un’immagine di un bel film (Una notte lunga dodici anni) che racconta la prigionia di quei ragazzi. Alla fine, Pepe esce dal carcere con il suo pitale trasformato in vaso: è spuntato un fiore. A fine mattinata, Pepe e Lucia ci chiedono un po’ di pazienza, hanno una cosa importante da fare: capire perché una rosa del loro giardino sta soffrendo. Ce ne andiamo, mentre loro rincalzano terra, mettono un po’ di concime e guardano con affetto quei petali rossi. 

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Data di aggiornamento: 24 Gennaio 2025
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